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Esteri, Taiwan sarà la prossima Hong Kong?

Le proteste a favore della democrazia hanno scosso Hong Kong per più di un anno. Ora, la Cina ha imposto una severa legge di sicurezza nazionale che minerà l’autonomia del territorio e, quindi, la sua identità. La nuova legge è una grande tragedia per il popolo di Hong Kong, ma sfortunatamente, la comunità internazionale può fare ben poco per fermarne l’attuazione. L’amministrazione Trump ha fatto intendere che vuole aumentare la pressione sul governo di Hong Kong, ma farlo rischia di danneggiarne l’economia più di quella di Pechino e accelerare “l’assorbimento” del territorio nella Cina Comunista.

Molti analisti consigliano moderazione agli Stati Uniti, sostenendo che un approccio più morbido potrebbe spingere Pechino a moderare le modalità di attuazione della legge ed evitare di peggiorare la situazione.

Il governo USA deve comunque considerare la situazione futura di Hong Kong nel formulare la sua risposta a Pechino. Una tiepida reazione degli Stati Uniti potrebbe lasciare ai cinesi l’impressione di poter procedere con relativa impunità su altre questioni controverse in Asia. L’ombra su Taiwan si profila minacciosa in questo quadro. Sempre che gli Stati Uniti non dimostrino la determinazione e la capacità di resistere all’aggressione cinese alla democrazia, i leader cinesi potrebbero eventualmente concludere che i rischi e i costi delle future azioni militari contro Taiwan siano bassi, o almeno tollerabili.

Ovviamente non esiste un collegamento diretto tra Hong Kong a Taiwan, Un attacco cinese sull’isola non è né imminente né inevitabile. Ma le recenti azioni di Pechino a Hong Kong, e altrove in Asia, sollevano domande preoccupanti sui suoi obiettivi in ​​evoluzione e sulla crescente volontà di usare tattiche coercitive per raggiungerli. In breve, gli Stati Uniti devono stare attenti a non giocare a Hong Kong quando Pechino si sta organizzando per una più ampia competizione per il futuro dell’Asia. Ultimamente la Cina è diventata molto più tollerante negli affari internazionali di quanto non fosse una volta e molto più audace nell’usare la coercizione per far avanzare gli interessi cinesi, spesso a spese degli Stati Uniti e di altre potenze, come Giappone e India.

Negli ultimi mesi, la Cina ha aumentato la sua pressione militare e paramilitare sui paesi vicini con i quali ha dispute territoriali, tra cui India, Giappone, Vietnam, Malesia e Indonesia. Sia che queste manovre aggressive fossero intese a ricordare al mondo quanto è risoluta la Cina o a capitalizzare sulla distrazione internazionale causata dal virus di Wuhan, offrono una forte indicazione sulle aspettative del presidente Xi e le sue rivendicazioni territoriali. La storia recente rivela che il sistema internazionale è vulnerabile a questo tipo atteggiamento.

Quando il presidente russo Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina e annettere la Crimea nel 2014, ha fatto seguito a quanto appreso in occasione dell’invasione della Georgia nel 2008. L’invasione della Georgia è costata poco alla Russia e ha suscitato solo una debole condanna internazionale. Taiwan e Ucraina occupano aree geopolitiche molto diverse, ma proprio come Putin ha preso ben poco in considerazione la risposta degli Stati Uniti alle azioni russe in Georgia nella sua decisione di invadere l’Ucraina, i leader cinesi studieranno la risposta degli Stati Uniti alla legge sulla sicurezza di Hong Kong per attagliare le loro decisioni sulle future possibili “annessioni” in Asia.

Dato quanto poco è costato finora il giro di vite di Pechino a Hong Kong, si può temere che Pechino trarrà conclusioni errate sui costi della futura coercizione contro Taiwan. Hong Kong e Taiwan hanno più cose in comune di quanto molti analisti comprendano, sia nella visione di Pechino sia nei sentimenti dei loro cittadini. Le proteste che hanno imperversato a Hong Kong nell’ultimo anno hanno scosso profondamente il popolo e la leadership di Taiwan. Secondo i rapporti di notizie, il numero di residenti di Hong Kong che si sono trasferiti a Taiwan nei primi quattro mesi del 2020 è aumentato del 150% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Le manovre di Pechino hanno lo scopo di intimidire Taiwan dimostrando la disponibilità della Cina Popolare a usare la forza e insistere sulla pressione diplomatica. Per dissuadere Pechino da ulteriori aggressioni, gli Stati Uniti devono chiarire che ci saranno conseguenze per la legge sulla sicurezza nazionale, in particolare se Pechino la utilizzerà per giustificare l’arresto o la consegna di giornalisti, attivisti pacifici o candidati politici a Hong Kong.

Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato disposizioni che autorizzano l’amministrazione Trump a negare i visti e imporre altre sanzioni mirate contro di coloro che sono direttamente coinvolti nella repressione di Hong Kong. Sanzioni mirate che non saranno esenti da costi per le relazioni tra Stati Uniti e Cina o per il popolo di Hong Kong, ma gli Stati Uniti possono limitare il danno collaterale attuandole in modo graduale.

L’amministrazione Trump dovrà iniziare migliorando il coordinamento con gli alleati europei e asiatici. Ha rilasciato dichiarazioni congiunte simbolicamente importanti su Hong Kong, prima con Australia, Canada e Regno Unito e poi con il G-7.

La presidenza tedesca del semestre europeo, comunque, non da’ un segnale di sostegno ai taiwanesi.

In particolare si è saputo da queste ore che nella lista dei paesi, i cui cittadini sono esentati dalle restrizioni a viaggiare nell’Unione Europea, pubblicata dal Consiglio dell’Unione Europea il 30 giugno e dall’Italia il 1° luglio Taiwan, non è inserita.

Quindi, in Europa non si è considerato che Taiwan ha attentamente monitorato lo sviluppo della situazione dell’epidemia di Covid-19, condividendo in maniera trasparente le informazioni con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la stessa Unione Europea allo scopo di combattere e controllare la pandemia globale come dovuto.

Inoltre, dall’esplosione dell’epidemia di Covid-19 non è stato riconosciuto che il governo di Taiwan ha approntato le corrette misure per contenere la diffusione del virus e, grazie all’elevato livello del sistema sanitario il numero di contagiati e di vittime è stato tenuto sotto controllo e bel sotto ai criteri stabiliti dall’Unione Europea.

Se non fosse palesemente per la “paura” di indispettire Pechino sarebbe quantomeno logico aspettarsi che sia inserita Taiwan in una seconda lista di paesi che possano godere della revoca delle restrizioni durante il prossimo meeting del Consiglio dell’Unione Europea.

In conclusione, la situazione a Hong Kong e le pressioni su Taiwan indicano quanto sia difficile fare deterrenza e garantire che Pechino veda la coalizione “occidentale” almeno come un problema se non come una minaccia, invece, di dare ai cinesi la possibilità di sfruttare le “paure di indispettire” europee per essere in grado di separare lentamente, ma inesorabilmente, gli Stati Uniti dai suoi alleati. Tutto questo con l’applicazione del moderno “sino soft power”.

Generale Giuseppe Morabito

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Esteri, 100 GIORNI DI NATO, 100 GIORNI DI VIRUS. LA MACEDONIA DEL NORD E I BALCANI ALLA PROVA DELL’UNIONE EUROPEA.

Cento giorni fa, al nascere della crisi internazionale per la pandemia, la Macedonia del Nord è diventata ufficialmente il trentesimo membro della NATO dopo aver depositato il suo “strumento di adesione” presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Il 17 marzo, il Senato spagnolo aveva ratificato il protocollo di adesione della Macedonia del Nord, diventando il ventinovesimo e ultimo stato membro della NATO a farlo. La stragrande maggioranza delle Nazioni che fanno parte dell’Alleanza ha sostenuto per molti anni l’importanza dell’adesione della Macedonia alla NATO e oggi l’adesione della Macedonia del Nord è semplicemente “un successo dell’Alleanza”.

La Macedonia del Nord, sotto la guida Stevo Pendarovski quinto presidente della Repubblica e grande sostenitore dell’adesione, è ora la quarta nazione dei Balcani occidentali a far parte della NATO (Albania, Croazia e Montenegro l’hanno preceduta), una regione che conserva significative differenze etniche, religiose e culturali, insieme a vecchie rivendicazioni storiche, e che ha beneficiato notevolmente della stabilità che la NATO ha generato sin dai tempi bui seguite alla disgregazione della Jugoslavia di Tito.

In questi cento giorni a Skopje non si è parlato molto di NATO ma di come reagire al virus proveniente dalla Cina. Oggi per i macedoni si deve superare la crisi sanitaria poi ci si concentrerà sul traguardo raggiunto e sui suoi costi.

In particolare, al 3 luglio il governo del piccolo stato balcanico con circa due milioni di abitanti (la metà di Roma) ha riferito di oltre 6700 casi confermati di COVID-19 all’interno dei suoi confini e che si erano, purtroppo, verificati oltre 320 decessi. Numeri che rientrano nelle medie balcaniche e mostrano una buona capacità del paese a contrastare la pandemia.  

Sempre alla fine di marzo, c’era stato anche il via libera dei ministri UE all’avvio dei negoziati d’adesione all’Unione per l’Albania e la Macedonia del Nord.

L’accordo unanime tra i ventisette membri UE è stato annunciato dopo una riunione in videoconferenza. I ministri con delega agli Affari europei hanno dato il loro benestare a Tirana e Skopje senza tuttavia fissare date per l’apertura delle trattative. Una decisione storica che arriva dopo tre rinvii in due anni e sorpassando le perplessità di Francia e Olanda. Comunque è opinione comune che i colloqui debbano durare diversi anni.

La possibile adesione all’UE dell’Albania e della Macedonia settentrionale (due paesi di estrema importanza geostrategica ed economica per l’Italia) ha grandi implicazioni per tutti i Balcani occidentali. Non solo la ormai possibile adesione di due dei paesi della regione apre la strada ad altri paesi, ma le condizioni che l’UE ha stabilito per l’adesione stessa, influenzeranno notevolmente le relazioni tra i paesi dei Balcani occidentali. La Commissione europea ha chiarito che i potenziali “Stati Membri” devono avere “buone relazioni di vicinato” perché “l’UE non può e non importerà controversie bilaterali e l’instabilità che possono comportare”.

Ciò significa che gli stati che vogliono aderire all’unione dovranno prima aver risolto le loro controversie bilaterali. Come noto a tutti nei Balcani occidentali la maggior parte delle controversie sono causate da disaccordi sui confini, uno “strascico storico” della disgregazione dell’ex Jugoslavia, fase in cui le demarcazioni dei confini stessi non sono sempre state definite con precisione. Trovare una soluzione rappresenterà una grande sfida per i paesi dei Balcani occidentali e l’UE. Nella maggior parte dei casi, la controversia è una questione vitale per la sopravvivenza di uno stato e include problemi di sicurezza nazionali e internazionali.

Tuttavia, l’inclusione dei paesi dei Balcani occidentali nella politica d’allargamento dell’UE ha dato ai governi l’incentivo a risolvere tali controversie. La prospettiva dell’adesione all’UE ha svolto un ruolo importante nel risolvere i conflitti etnici e le sfide bilaterali nella regione dal 2001. Un esempio di ciò è proprio la conclusione della disputa di lunga durata tra la Grecia e la Macedonia settentrionale sul nome di quest’ultima. La prospettiva dell’adesione all’UE ha dato al governo della Macedonia settentrionale l’incentivo a cambiare il nome del paese dalla Macedonia alla Macedonia del Nord e migliorare in maniera definitiva le relazioni con la Grecia. Non solo, ma al fine di qualificarsi per l’adesione all’UE, i paesi devono attuare riforme in materia di governance, economia e stato di diritto al fine di soddisfare gli standard dell’UE.

Anche se l’influenza dell’UE nella regione è aumentata nel tempo, alcune controversie saranno difficili da risolvere anche con l’aiuto dell’UE. Ciò è evidente nel caso della disputa Serbia-Kosovo. Entrambi i paesi aspirano ad aderire all’UE – Kosovo come potenziale candidato e la Serbia già come paese candidato.

Ciò che ha particolarmente indebolito l’influenza dell’UE nella regione è, comunque, il mancato convinto impegno dell’UE per un ulteriore allargamento. In particolare, l’oggi superato veto della Francia nell’ottobre 2019 di avviare i colloqui di adesione con l’Albania e la Macedonia del Nord ha creato dubbi tra i paesi dei Balcani occidentali in merito al loro futuro come Stato membro dell’UE. L’invito della Francia a riformare la politica di allargamento dell’UE ha comportato un rallentamento dell’integrazione, riducendo ancora di più le aspettative dei governi della regione nel prossimo futuro. Questa percepita mancanza d’impegno da parte dell’UE probabilmente avrà anche un impatto sulla risoluzione dei problemi bilaterali perché l’incentivo per i governi a farlo può scemare anche sotto la spinta delle potenze che si oppongono all’allargamento.

Infatti, se la mancanza d’impegno dell’UE potrebbe essere percepito come “meno probabile possibile adesione” e i paesi cercheranno partenariati altrove (ad esempio con la Russia o la Cina). 

La Russia e l’UE, in particolare, sono state in competizione per anni sull’influenza nei Balcani occidentali. Sin dalle guerre jugoslave negli anni ’90, la regione è stata un punto di dibattito quando si accennava” di allargamento UE / NATO e relazioni transatlantiche. Storicamente, la regione dei Balcani occidentali è ben al di là della considerata “sfera d’influenza” della Russia nell’Europa orientale. In termini economici, geografici e sociali, la regione ha sempre gravitato più verso l’Occidente che verso la Russia. Pertanto, l’unica opzione della Russia è stata quella di minare l’UE (così come la NATO) utilizzando le vulnerabilità della regione nei loro confronti. Pertanto, la Russia non vuole necessariamente portare la regione nella propria orbita, ma vuole piuttosto che la sua influenza eserciti una leva sull’UE.

Dal punto di vista della Russia, se l’UE può intromettersi nel “cortile” della Russia (ad esempio Ucraina, Georgia, ecc.), la Russia, dopo aver “subito” l’ingresso della Macedonia del Nord nella NATO, cercherà di contrastare l’allargamento anche all’UE e lo può fare facendo leva su vecchie controversie alimentate dal nazionalismo e la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche. Più in generale, la Russia potrebbe utilizzare coercizione, cooptazione e sovversione per raggiungere i propri obiettivi.

In contrario, l’interesse della Cina per la regione non è tanto politico, ma più geo-economico. Aumentando la sua influenza, la Cina sta tentando di utilizzare i Balcani occidentali come gateway e piattaforma commerciale di transito verso l’Europa occidentale, che è la regione cui sono veramente interessati. I tassi di disoccupazione medi nei Balcani sono circa del 20% e l’economia ha un disperato bisogno d’investimenti. La Cina ha colto quest’opportunità investendo denaro nella regione per guadagnare rapidamente influenza. Pechino ha garantito degli investimenti fornendo prestiti e, di conseguenza, creando una dipendenza a lungo termine. La maggiore presenza della Cina nella regione è, quindi, il risultato diretto di un vuoto di potere diplomatico/economico creato dalla stessa UE.

La mancanza d’impegno europeo nei confronti della regione ha permesso a Pechino di trasformare i Balcani occidentali, come indicato poco prima, da un’area di non interesse relativo in una delle sue importanti aree di gravitazione economica e questo è avvenuto in pochissimo tempo. Se l’UE non accresce il proprio impegno nei confronti della regione, darà alla Cina e/o alla Russia la possibilità di divenire attori importanti per il futuro dei Balcani. Si può sperare che l’avvio del processo di adesione dell’Albania e della Macedonia del Nord all’UE abbia inviato un chiaro messaggio a tutti i governi dell’area sul “nuovo impegno” dell’UE nella regione.

Con l’inizio del semestre di presidenza della Germania dell’Unione Europea è d’obbligo, in conclusione, citare la cancelliera tedesca Angela Merkel: “Ci sarà solo un’Europa veramente unita con la partecipazione degli stati dei Balcani occidentali”.

Generale Giuseppe Morabito

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Esteri,Crisi Nato nel futuro post-pandemia: minaccia cinese crescente, pressione sulle forze Usa ed europei naïf e scrocconi

L’Alleanza è a un punto di svolta tra credibilità politica e incapacità militare. Il mondo sta cambiando rapidamente, e il messaggio che sta arrivando sia agli avversari che ai partner della Nato, è che gli alleati sono semplicemente troppo divisi, troppo deboli e convinti che i valori democratici da soli possano sostituire il potere militare.

Il mondo sta per entrare in un periodo di “geopolitica instabile” post-virus di Wuhan, ed è necessario considerare come l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato) si adatterà per affrontare sia la dilagante incertezza riguardo la leadership degli Stati Uniti, sia la crescente minaccia proveniente dalla politica estera del regime cinese.

Per comprendere appieno la portata della situazione è necessario analizzare le sfide interne ed esterne che la Nato ha dovuto affrontare negli ultimi tre anni e mezzo, coincidenti con la presidenza Trump, e la sempre crescente concorrenza strategica di Pechino.

Il presidente Trump ha minacciato di considerare un parziale ritiro degli Stati Uniti dalla Nato a meno che i Paesi alleati non siano disposti ad aumentare le proprie spese per la difesa. Negli ultimi giorni, ha manifestato l’intenzione di procedere ad una significativa riduzione (30 per cento circa) delle truppe Usa dalla Germania, anche se finora questo piano è solo programmato, non è ancora certo che verrà attuato.

Nonostante la retorica di Trump, tuttavia, è degno di nota il fatto che l’impegno generale della difesa degli Stati Uniti verso l’Europa ha avuto un incremento solo durante la sua amministrazione. Seguendo questa linea la strategia di difesa nazionale del 2018 prevedeva il rafforzamento delle alleanze tra le principali priorità statunitensi.

Con l’escalation della tensione con la Cina la Nato si è ancora una volta dimostrata cruciale per gli interessi strategici e i valori democratici degli Stati Uniti.

Bisogna tenere in considerazione che mentre la Russia, sempre più attiva, rimarrà probabilmente la principale “occupazione di sicurezza” della Nato, la rivalità globale molto più ampia tra Cina e Stati Uniti potrebbe essere al centro degli equilibri geostrategici.

Mentre la pandemia “spazzava” il globo, la Cina ha sfruttato la distrazione da Covid-19 per intraprendere un’azione aggressiva con base soft e real power.

Le crescenti tensioni al confine tra militari cinesi e indiani; le notevoli e non previste problematiche a Hong Kong; un aumento dell’attività militare nelle vicinanze di Taiwan e le numerose navi da guerra che gli Stati Uniti hanno inviato per scoraggiare le operazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, sono la prova delle sfide alla sicurezza poste da Repubblica Popolare.

I membri europei della Nato, dal canto loro, stanno affrontando sfide sulla sicurezza sempre più difficili, dovute all’ascesa globale della Cina. Numerosi sono gli interessi cinesi in Europa, che determinano la crescente dipendenza economica di quest’ultima da Pechino.

Nel quadro generale vi sono le richieste per consentire a Huawei di accedere alle reti 5G del continente; la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento, esposte dalla pandemia di Covid-19 nei confronti della Cina: è evidente, o dovrebbe esserlo, che Pechino sta creando seri rischi per i paesi membri della Nato.

Una potenziale alleanza strategica navale sino-russa nel teatro europeo potrebbe essere un ulteriore motivo di preoccupazione.

La Nato potrebbe contrastare efficacemente l’aggressione cinese, tenendo però presenti dei punti fermi:

– È improbabile che la Nato intervenga se non ritiene che i propri valori e interessi siano in pericolo, situazione che con la Cina non sarebbe da escludere a priori, considerando i suoi movimenti nei mari della Cina orientale e meridionale.

– Tutte le decisioni della Nato vengono prese attraverso il consenso comune, una condizione inevitabile che potrebbe rivelarsi un ostacolo all’intervento, perché non tutti gli alleati hanno le medesime percezioni e priorità.  Tuttavia, come dimostrato dall’esempio della Libia, i membri potrebbero consentire che un Paese membro intervenga.

– La Nato tradizionalmente cerca il sostegno di stati e organizzazioni regionali prima di avviare un’operazione di gestione delle crisi, il che significa che una richiesta di assistenza da parte dei partner della Nato nell’area Asia-Pacifico è un fattore importante.

– La decisione di intervenire si baserebbe sulla capacità di organizzare un’operazione militare efficace. Sarebbe utile aumentare la presenza marittima dei singoli alleati nella regione Asia-Pacifico, consentendo l’interoperabilità con molte nazioni partner ufficiali della Nato.

– Come prassi, la Nato chiede che le sia riconosciuta la legittimità internazionale, in particolare un mandato delle Nazioni Unite per l’intervento in una crisi. Tuttavia, l’autorizzazione di intervento sarebbe improbabile a causa del veto di Pechino.

In questi giorni si sta sviluppando all’interno della Nato una discussione politica matura sulla Cina. Lo sconvolgimento globale causato dal Covid-19 non farà che accrescere i problemi, atteso che sarà difficile orientare l’opinione pubblica a maggiori spese militari a detrimento, forse, di quelle sanitarie.

A Bruxelles si comincia a ventilare la possibilità di un nuovo concetto strategico entro il 2030. Ciò perché, considerato quanto suddetto, la Nato deve essere in grado organizzarsi per dissuadere un potenziale avversario in una guerra mondiale di alto livello. Sarebbe opportuno iniziare a pensare di sostenere gli alleati in prima linea nel sud dell’Europa, affrontando le conseguenze di un crollo potenzialmente catastrofico in Medio Oriente e Nord Africa (MENA region). Nonostante i significativi ma modesti progressi nella difesa aerea e missilistica integrata, e dichiarati miglioramenti della capacità di deterrenza convenzionale dell’Alleanza durante la riunione dei ministri della difesa della scorsa settimana, l’Alleanza è a un punto di svolta tra credibilità politica e incapacità militare. La causa della crisi, perché è quello che sta rapidamente diventando, è duplice: una crescente pressione sulle forze statunitensi in tutto il mondo e un rifiuto degli europei di assumersi la maggior parte dell’onere per la propria difesa.

Dovrebbe da subito essere chiaro che la Nato è essenzialmente un’organizzazione europea, per gli europei, sostenuta da americani e canadesi, non un’organizzazione americana per gli europei, occasionalmente sostenuta da europei.

Sulla scia della fine della Guerra Fredda il centro di gravità dell’Alleanza si era spostato verso il dialogo, ora, forse deve riorientarsi verso la difesa militare.

Il mondo sta cambiando rapidamente, e il messaggio che sta arrivando sia agli avversari che ai partner della Nato, è che gli alleati sono semplicemente troppo divisi, troppo deboli e convinti che i valori democratici da soli possano sostituire il potere militare.

Troppi leader politici occidentali sembrano incapaci di capire la portata della minaccia emergente e le sue implicazioni per l’area euro-atlantica. Peggio ancora, la tendenza politica in molti Paesi alleati, Italia compresa, è quella di mantenere la difesa fuori dall’agenda politica. L’ascesa militare della Cina, il pericoloso mix di instabilità economica e politica in Russia, l’avanzamento di una nuova era di tecnologie militari, il cambiamento demografico, il fondamentalismo e stati “fragili” in tutta la MENA, e gli Stati Uniti sotto la crescente pressione interna ed esterna, suggeriscono che la Nato ha bisogno di adattarsi al nuovo mondo che sta prendendo forma intorno a lei.

Poi, c’è la “madre di tutte le domande”, visto il virus di Wuhan e la certezza che la strategia militare Nato del 2019 è stata gravemente compromessa dalla crisi, o almeno lo sarà. L’Alleanza (o meglio le sue nazioni) può continuare a riconoscere solo la minaccia che può permettersi politicamente, ed evitare tutte le sfide fondamentali senza cercare di affrontarle?

( Articolo di Generale Giuseppe Morabito da Atlantico Quotidiano del 26 giugno 2020 )

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ESTERI, INIZIA L’ESTATE MA IN SERBIA NON CAMBIA NULLA. CONFERMATO A GRANDE MAGGIORANZA IL GOVERNO DEL PRESIDENTE VUCIC. PIU’ DEL 60% DEGLI ELETTORI A SUO FAVORE.

Ieri, 21 giugno e primo giorno dell’estate poco più di 6,5 milioni di cittadini serbi, aventi diritto, sono stati chiamati al voto nonostante i timori dovuti alla pandemia da Covid 19.

I seggi elettorali sono stati aperti dalle 7 alle 20 e gli elettori hanno scelto tra più di 20 liste elettorali per rassegnare i 250 posti nel parlamento.

In particolare, 21 liste di candidati sono state presentate agli elettori, quattro appartenenti alla minoranza etnica del paese, due dell’attuale coalizione progressista-socialista al governo e il resto proviene da piccoli partiti di opposizione.

Sono stati allestiti 8.253 seggi elettorali, oltre 140 per la comunità serba in Kossovo, (la Serbia ancora non riconosce l’indipendenza di tale territorio) e 42 per gli elettori all’estero.

Come nelle attese e senza sorpresa, a conferma dei sondaggi, il vincitore è stato il Partito progressista serbo (SNS) già al governo. Quindi, l’SNS guidato dal presidente Aleksandar Vucic continuerà nella guida del paese per i prossimi anni.

Dai primi dati degli scrutini appare chiaro che l’SNS ha superato il 60 % dei consensi e si sta attestando su circa i favori dei due terzi della popolazione votante.

Una schiacciante vittoria di Vucic e dei suoi sostenitori.

I partiti di opposizione riuniti nell’Alleanza per la Serbia avevano da qualche tempo annunciato il boicottaggio delle elezioni nonostante alcuni tentativi, poi falliti, di dialogo tra il partito al governo e l’opposizione stessa.

Gran parte dell’opposizione serba aveva, infatti, lasciato il parlamento nel gennaio del 2019 e, probabilmente quanto ha capito che la sconfitta fosse certa, ha boicottato anche i sondaggi. Primo tra chi è sfuggito al confronto il più grande gruppo di opposizione Alleanza per la Serbia. L’opposizione ha preso questa decisione sostenendo che le elezioni non sarebbero state né libere né democratiche.

Su questo specifico punto, il Presidente del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa, Anders Knape, aveva confermato la sua fiducia nelle autorità governative serbe e nella possibilità di organizzare elezioni democratiche nonostante l’attuale pandemia.

Confido nella capacità della Serbia di implementare buone prassi nei giorni che precedono la data delle elezioni e di assicurare che il voto sia organizzato nel pieno rispetto delle norme internazionali per elezioni libere ed eque, anche in questi tempi difficili“, ha affermato ribadendo che nel contesto della crisi attuale, il Congresso non potrà inviare una delegazione di osservatori, ma continuerà il dialogo e la cooperazione con le autorità serbe per l’attuazione dei principi europei di autonomia territoriale e democrazia.

Atteso quindi che, a parere di chi scrive, non partecipare alle elezioni è sempre un errore e si passa facilmente dalla parte del torto, l’unico grande cambiamento è stato l’abbassamento della soglia per entrare in parlamento dal 5 al 3 %, il che ha aumentato le possibilità che i piccoli partiti ottengano alcuni seggi nell’assemblea. Al momento non è possibile quantificare questo dato.

Le elezioni erano inizialmente previste per il 26 aprile ma sono state rinviate quando è stata dichiarata l’emergenza, lo scorso 15 marzo, a causa della pandemia proveniente dalla Cina. Quanto precede anche perché’, la Serbia ha, purtroppo, ancora una media di circa 50 nuovi casi di infetti da Covid 19 al giorno ed è il paese con il più alto numero di persone colpite dal virus di tutta la ex Jugoslavia. Nonostante questo dato è impressione comune in ambito internazionale che il governo uscente e nuovamente in carica si sia comportato in maniera pronta ed efficace in questo frangente.

Agli elettori è stato consigliato di partecipare alle urne con maschere, anche fornite nei seggi e di mantenere le distanze di sicurezza.

A inizio giugno si è insediato in Kossovo il nuovo governo del Presidente Hoti che ha indicato le principali priorità del suo programma, la ripresa del dialogo con Belgrado. La normalizzazione delle relazioni con la Serbia è necessaria, atteso che, da più di un anno, c’è un congelamento dei rapporti tra Serbia e Kossovo, a causa della decisione di Pristina d’imporre dei dazi doganali del cento per cento, sia alle merci serbe, sia a quelle in entrata dalla Bosnia Erzegovina, altro Stato dell’area balcanica che non riconosce il Kossovo.

Hoti ha subito rimosso i dazi e, conseguentemente, a Belgrado il presidente serbo Aleksandar Vucic ha affermato che l’eliminazione delle barriere commerciali ha, in sostanza, spianato la strada al progresso nelle relazioni diplomatiche. “Credo anche che possano esserci buoni rapporti commerciali tra albanesi e serbi“, ha detto, riferendosi agli albanesi che sono in maggioranza in Kosovo. La grande conferma di Vucic deve, quindi, essere vista come positiva per lo sviluppo della democrazia e delle pacifiche relazioni in quella martoriata area dei vicini Balcani.

Buona notizia sia per l’Unione Europea sia per la NATO che hanno grandi interessi per la stabilità dell’area, anche se c’è da aspettarsi qualche “ideologica” e non razionale presa di posizione.

Generale Giuseppe Morabito

Membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation

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Esteri, LE GUERRE (PER PROCURA) CON I DRONI

Il conflitto in Georgia aveva dimostrato, alla fine dell’ultimo decennio, che le forze armate russe erano in ritardo nell’area dei droni da combattimento, sia per quanto riguarda lo sviluppo dei sistemi sia per l’equipaggiamento delle sue forze.

La maggior parte di questi armamenti era stata progettata negli anni ’80.

Dieci anni dopo, prima il conflitto siriano, poi quello in Libia, hanno confermato che è in atto un’importante inversione di tendenza. Secondo dati resi noti dal Ministero della Difesa russo, Mosca ha dispiegato in Siria più di 70 droni tattici, di diversi modelli per le sue missioni belliche e altri sono stati testati lì per esplorare nuove procedure.

Infatti, diversi mesi prima del loro intervento In Siria, le forze speciali russe avevano effettuato missioni di ricognizione e uno dei loro droni era stato intercettato dall’esercito di liberazione siriano nell’estate del 2015.

È ormai noto che le forze armate russe hanno sperimentato la guerra con i droni anche in aree addestrative in Armenia, e in modo più approfondito nel conflitto nel Donbass (Ucraina). A differenza delle forze NATO l’interesse russo per le missioni di guerra elettronica da piccoli droni tattici è notevole anche perché l’esercito russo ha capito che le comunicazioni via cellulare erano l’anello debole delle forze armate per ottenere informazioni sulla situazione delle forze nemiche.

La campagna siriana, con l’utilizzo dei droni dalle basi di Hmeimim, Aleppo e Palmyra, è stata sia un’opportunità per le forze armate russe di organizzare in modo chiaro come debba essere condotto l’uso dei droni e di testare modelli che saranno presto distribuiti a tutte le forze armate sia il modo di proseguire lo sviluppo di microdroni che sarebbero idonei per il combattimento urbano in caso di conflitto con paesi della NATO.

In merito, il Cremlino ha pubblicato, in autunno, un documento sulla nuova strategia per l’utilizzo dell’intelligenza artificiale affermando che lo sviluppo di algoritmi per il controllo dei droni è una necessità fondamentale.

Ultimamente l’uso da parte di gruppi terroristici islamici di droni è stato oggetto di attenzione da parte di analisti in tutto il mondo.

In particolare, per dare una prima spiegazione all’uso dei droni in Medio Oriente bisogna tener presente che negli ultimi anni la Cina Popolare è stata sempre più desiderosa di incrementare il commercio di armi e questo, per le sue industrie belliche, significa vendere estensivamente droni oltre ad armi di piccolo e medio calibro.

Da numerosissime fonti e da prove “sul campo” è ormai certo che le armi cinesi sono utilizzate e vendute in tutto il mondo, compresa la Libia.   In particolare i resti di un missile di certa fabbricazione cinese indicano un’escalation della guerra dei droni in quell’area di guerra. Infatti, è stato ritrovato un missile LJ-7 che è l’armamento principale del drone Wing Loong di fabbricazione cinese.

Il Wing Loong, che ha caratteristiche simili al drone Predator prodotto dagli Stati Uniti, è stato venduto ed è in linea di utilizzo da parte di alcune forze aeree del Medio Oriente, comprese quelle dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita. Il Predator è il drone in linea d’impego anche all’Aeronautica Militare Italiana che in questi giorni ha fatto sapere di aver raggiunto le 50mila ore totali di volo.

Non è un caso, che sia l’Egitto sia gli Emirati Arabi Uniti stanno dando supporto logistico in Libia, alla fazione dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) guidata dal Generale Khalifa Haftar che sta combattendo contro il governo di accordo nazionale sostenuto politicamente dalle Nazioni Unite.

Gli Emirati hanno finanziato la costruzione della base aerea di Al Khadim, un ex aeroporto nella provincia di Al Marj, nella Libia orientale, e dal 2016 dispiegano, nella base, aerei di attacco e droni Wing Loong al fine di fornire la copertura aerea per le forze di Haftar.

La Cina, è noto, sta promuovendo lo sviluppo e l’impiego di droni e secondo fonti del Pentagono alcune stime indicano che Pechino prevede di produrre oltre 42.000 sistemi senza pilota terrestri e marittimi entro il 2023. In merito, la RAND Corporation, un think tank californiano con stretti legami con l’US Air Force, ha reso noto che la diffusione dei droni cinesi potrebbe avere implicazioni preoccupanti anche per gli Stati Uniti.

Dopo la neutralizzazione del Capo della Guardia Repubblicana islamica iraniana, Suleimani (e la conseguente messa a nudo della pochezza strategica dell’Iran), è tornata alla ribalta delle cronache la capacità USA di utilizzo dei droni, al momento non raggiungibile da nessun altro paese.

Durante e dopo la guerra del Golfo, l’esercito USA ha iniziato a far volare droni sull’Iraq, segnale dell’interesse americano ai moderni droni militari. Nell’ultimo decennio, la Central Intelligence Agency ha utilizzato veicoli armati e pilotati a distanza per neutralizzare gruppi di terroristi che si organizzavano per effettuare azioni contro le forze statunitensi in Pakistan e Afghanistan. La già citata neutralizzazione di Soleimani è stata un perfetto esempio della capacità americana di intraprendere azioni militari contro i terroristi ovunque si nascondano, dimostrando che i droni stanno ora giocano un ruolo chiave nel contrasto alle minacce in ambito internazionale.

Le potenzialità anti drone dell’Iran sono state, quindi, sconfessate dopo la parziale dimostrazione di capacità, lo scorso giugno 2019, quando un drone di sorveglianza americano era stato abbattuto dagli iraniani nello Stretto di Hormuz.

Tornando al conflitto alle porte del nostro paese, in Libia, dopo l’intervento della Turchia, tutto è cambiato quando Erdogan ha confermato di aver drasticamente aumentato il suo supporto militare alle forze armate del governo di Tripoli di Al-Serraj (GNA) che è anche largamente sostenuto economicamente dal Qatar.

Insieme ai mercenari ex terroristi turcomanni, Ankara ha inviato droni armati di fabbricazione turca, vale a dire il Bayraktar TB2. Più piccolo e con una portata molto più corta rispetto al Wing Loong cinese, che, come precedentemente indicato, viene usato dalle truppe fedeli al Generale Haftar, il Bayraktar è, comunque,  in grado di individuare e distruggere i bersagli di terra del LNA, creare problemi alla logistica delle sue linee di rifornimento e attaccare le basi aeree avversarie che per lungo tempo sono state considerate sicure.

Le truppe di terra filo-governative affiancate dai mercenari turchi, al momento, possono operare con copertura aerea e conoscendo le posizioni del nemico.
Proprio la Libia è l’esempio migliore, da portare all’opinione pubblica, di guerra per procura della quale i droni sono uno degli strumenti bellici principali.

Le grandi potenze, che sono anche le principali produttrici con le loro industrie, si sfidano in territori “neutri” per loro, sperimentando le possibilità dei loro prodotti e la loro capacità di confrontarsi con i paritetici mezzi delle controparti.
Siria, Donbass, Golfo Arabico sono le altre e più note aree della guerra per procura. Ce ne sono altre, meno note e pubblicizzate dai media, al di fuori della nostra area d’interesse primaria.

In Italia, la Piaggio Aerospace costruisce il drone P1HH (anche con funzioni civili di monitoraggio) che è il fiore all’occhiello della nostra tecnologia aeronautica

Piaggio Aerospace, in crisi commerciale anche in conseguenza del fermo produttivo dovuto al Covid-19, ha una forza di lavoro di 980 addetti e il proseguire dell’attività è fondamentale anche per l’indotto d’imprese fornitrici.

È noto che sia il Governo Italiano sia il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini stanno seguendo la problematica. 
Il mercato dei droni non si ferma e se l’Italia esce dal mercato i possibili acquirenti si rivolgeranno altrove, certo non resteranno senza questa tecnologia ormai fondamentale in tutte le aree di crisi.

Generale Giuseppe Morabito

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EUROPA & MONDO

Esteri. Gli stereotipi europei e il G7 che non deve arretrare…

“ll dilagante scetticismo sull’UE deve fermarsi per un momento. Viene finalmente ripreso il grande progetto che è stato una forte ambizione e speranza. Dalle rovine e dal sangue di due guerre mondiali è nata un’intesa regionale che rimane unica al mondo. Come tutto è imperfetta, ma proviamo a immaginare dove saremmo senza il trattato di Roma del 1957?”

Questa dichiarazione dell’Ambasciatore Minuto Rizzo, Presidente della NATO Defence College Foundation deve far riflettere.

Come attualissimo è quanto scritto nel 2013 dalla filosofa Chiara Botticci: “Il mito politico dell’Europa è più che una narrazione storica. L’Europa, come qualsiasi altra struttura politica sovranazionale, dipende da un eccesso di attaccamento emotivo: richiede storie condivise che hanno il potere di provincializzare le identità nazionali e galvanizzare nuove forme di fedeltà e azione politica”.

La pandemia da “Virus di Wuhan” ha messo in evidenza con forza la complessità di questa situazione.

Nelle settimane passate, quando i ministri delle finanze europei hanno approvato l’assistenza di emergenza sotto forma di prestiti, attraverso il meccanismo europeo di stabilità (MES), le reazioni politiche sono state differenti, soprattutto in Italia. Allo stesso modo, le richieste italiane di condivisione del debito sono state accolte con ostilità da molti paesi del nord Europa compresa la Germania. Queste reazioni hanno profonde radici culturali.

Ad aprile, per esempio, i lettori del tabloid più venduto della Germania, il Bild, si sono svegliati con un titolo sorprendente: “Ciao, Italia! Ci rivedremo presto. Per un espresso o un bicchiere di rosso. In vacanza o nella pizzeria locale”. Espresso, vino, pizza: questa presunta “dichiarazione di solidarietà” aveva poco da dire sull’Italia e molto sulle prospettive tedesche. I commentatori italiani hanno replicato prontamente, con un misto d’indignazione e stupore. Alcuni quotidiani vicini alle idee del governo italiano hanno pubblicato articoli cercando di far passare un messaggio positivo e di nascondere le responsabilità politiche e gli obblighi morali della Germania.

Tutti gli interlocutori hanno seguito uno “canovaccio” prevedibile. Il fascino tedesco per l’Italia è più antico del Viaggio italiano di Goethe (1816/17) e si è progressivamente consolidato!

Allo stesso modo, molti italiani hanno cercato in Germania un “alter ego” necessario al proprio senso d’identità nazionale. Colore, passione e transitorietà a sud delle Alpi, competenza, produttività e noia a nord: identità così speculari hanno giocato un ruolo cruciale dal diciannovesimo secolo.

Ippolito Nievo, nelle “Confessioni d’un italiano (1858)”, ha paragonato il Bel Paese alla bellezza effimera di una lunga serata estiva.

L’Italia, osserva Nievo, può essere compresa solo da un italiano, ma può essere amata solo da uno straniero, e in particolare da quei settentrionali, che apprezzano anche il fascino cupo di una brughiera torbida. La mente umana, secondo il Nievo, può imparare ad ammirare i grandi successi del Nord, ma il cuore umano desidererà sempre il Sud”. Nel 1958, Ennio Flaiano visitò Amsterdam e notò che l’Italia, per gli olandesi, non significava altro che tessuti e panna montata.

Identità e cliché stereotipati non hanno perso il loro fascino nel XXI secolo. Il lettore tedesco medio, d’altra parte, guarda l’Italia della narrativa poliziesca di Andrea Camilleri o a qualche “balla auto-dissacrante” tipo le scritture acchiappa soldi sulla malavita napoletana che parlano di famiglia, amore e criminalità organizzata.

La crisi del debito greco avrebbe dovuto insegnare agli europei che la collaborazione internazionale richiede comprensione e rispetto reciproco.

La crisi del coronavirus mostra che non abbiamo ancora imparato la lezione.

Nessuno dovrebbe cercare di distogliere i nord europei e i tedeschi in particolare, dal loro amore per la pizza, la passione e il prosecco. E nessuno dovrebbe parlare degli italiani solamente per il loro fascino che provano per la disciplina nordica.

Per essere chiari: l’efficacia di queste narrazioni secolari, su entrambi i lati delle Alpi, è presente lo scetticismo cui fa riferimento Minuto Rizzo.

Non è quindi un caso che i tedeschi non si fidino degli italiani economicamente parlando e che gli italiani non si fidino dei tedeschi come capaci di avere comprensione dei loro problemi. Finché ogni paese considera l’altro come una proiezione dei propri desideri e difetti, non ci sarà una narrazione condivisa. Ci vuole unità.

Di queste ore la notizia che il “no” della cancelliera tedesca ha influito e, di fatto, il presidente degli Stati Uniti è stato costretto a rinviare il G7 anche perché sarebbe impossibile tenere un G7 senza il paese leader nell’Unione Europea in questo periodo in cui di “unione” ce n’è poca….

Il Presidente Trump ha appena dichiarato che posticiperà il vertice dei sette grandi, che voleva tenere a fine giugno alla Casa Bianca, dopo che la cancelliera tedesca aveva declinato il suo invito a partecipare di persona a causa dei rischi da Virus di Wuhan. Trump intenderebbe organizzare il vertice a settembre.

L’altro elemento che mette in evidenza la strategia USA è l’invito della Russia: Trump conferma di fatto di tenere un canale privilegiato con Mosca, anche nel momento di massimo confronto geopolitica con la Cina comunista anche se in Europa molti pensano che l’attuale approccio di Putin rende difficile ogni suo tentativo di dialogo e di avvicinamento atteso che la Russia è sospesa dal G7 ormai dal 2014.

L’esclusione, che tecnicamente è una sospensione, è uno degli elementi centrali delle decisioni occidentali. Il presidente USA ha poi spiegato di voler invitare anche altri paesi come la Corea del Sud, l’Australia e l’India.

Il G7, quest’anno a guida Usa, doveva tenersi in videoconferenza alla fine di giugno. Il no di Merkel ha poi cambiato il quadro, un no nel quale chi conosce i meccanismi della diplomazia può intravedere un aumento della distanza fra Trump e l’Europa a guida Merkel. Washington vorrebbe superare l’attuale “arretramento” a una possibile “nuova guerra fredda”.

L’Italia deve vedere in questa partecipazione “allargata” una possibilità di uscire dall’anonimato in politica estera che caratterizza questo momento.

Deve sfruttare la sua vocazione europea e i buoni rapporti con Berlino e cercare un’identità superando le contrapposizioni Sud –Nord e tentare di non essere estromessa dal G7 per “inesistenza internazionale”.

Chi ci rappresenta deve sempre ricordare che nel 1957 l’Europa scelse di esistere “unita” firmando in Campidoglio i Trattati di Roma che istituirono la Cee (Comunità Economica Europea) e la Ceea (Comunità europea dell’energia atomica, nota come Euratom).

Il quadro storico entro cui s’inserirono i Trattati era il secondo dopoguerra (ritorno alla pace dopo le dittature e le tragedie del secondo conflitto mondiale, nascita delle democrazie parlamentari in Germania e Italia, ricostruzione economica e sociale) e la “guerra fredda”, con il continente diviso dalla Cortina di ferro.

Ora bisogna guardare avanti e non arretrare troppo.

L’oggi novantenne Clint Eastwood ha detto in un suo famosissimo film: “A volte per tirare un colpo vincente bisogna arretrare, ma se arretri troppo non combatti più.”

L’Europa unita merita di meglio.

Generale Giuseppe Morabito

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EUROPA & MONDO

Esteri, La Nato e il virus di Wuhan

Anche nel 2020 il ruolo principale della NATO rimane quello di garantire la libertà e la sicurezza dei Paesi membri.

Questo è un concetto che si presta a differenti declinazioni strategiche perché il ruolo della NATO è costantemente oggetto di dibattito e differenti visioni. Soprattutto è dibattuto come far percepire tale missione alle audience nazionali dei paesi membri e a quelle “esterne”.

Le correnti principali sono due: la prima vorrebbe l’Alleanza come attore di hard security con un’Organizzazione in grado di risolvere in maniera eccellente le crisi con l’uso della forza per mezzo della sua non pareggiabile struttura militare.La seconda intende presentare l’Alleanza come un’Organizzazione che può fornire sicurezza nel mondo senza l’utilizzo della propria forza militare ma per mezzo della componente politico-diplomatica e la forza della “dissuasione” e/o “deterrenza”.

Il Presidente Trump ha dato una “scossa” all’Alleanza nell’ultimo Summit, chiedendo un cambiamento sostanziale (maggiori spese per la difesa) ma in risposta gli alleati – soprattutto europei – negano la natura, la portata e la velocità del cambiamento strategico.

Il COVID-19 potrebbe essere il punto di svolta per definire un nuovo equilibrio globale che è sempre più precario. Si può supporre che mentre il COVID-19 accelererà senza dubbio il cambiamento, è poco probabile che trasformi radicalmente la natura del cambiamento stesso. In effetti, se le conseguenze strategiche del COVID-19 sono simili alle pandemie del passato, mai così “forti” da porre fine alla minaccia di un conflitto, potrebbe comunque aumentare il livello di minaccia.  

I governi e l’opinione pubblica europea sono fermi su una certezza decennale: non ritengono che possa scoppiare  una grande guerra nell’immediato futuro, anzi escludono l’ipotesi di un conflitto globale in futuro!

Il Virus di Wuhan potrebbe allontanare ulteriormente la percezione europea dalla realtà, creando una profonda divergenza tra chi si concentra sulla sicurezza sanitaria e chi invece ritiene che sia centrale il concetto della difesa nazionale e della democrazia.  

Sulla sicurezza sanitaria è intervenuto il segretario generale dell’alleanza, Jens Stoltenberg, mettendo a disposizione il coordinamento logistico nei rifornimenti di materiali medicali. Il programma scientifico della NATO ha inoltre finanziato un progetto di diagnostica anticorpale rapida, proposto dall’ISS e promosso dalla Farnesina. Ma sul piano della difesa nazionale e della democrazia, sembra che pochi governi europei comprendano la situazione e siano in linea con gli americani.

Nella maggior parte dei casi non prendono in considerazione uno scenario del genere. Contro questa visione, numerosi affermati analisti intravedono il pericolo che l’Alleanza debba in un prossimo futuro affrontare una crisi multi-teatro simultanea nel Mar Cinese (Taiwan o Hong Kong), nel Medio Oriente (Siria e Turchia) e nel Nord Africa (Libia), nonché sui fianchi orientali e settentrionali dell’Alleanza attraverso lo spettro convenzionale e nucleare e lo spettro analogico e digitale.

Dal punto di vista strategico una delle conseguenze negative, derivante dalla pandemia potrebbe essere, per la NATO, che i paesi europei decidessero di sospendere la modernizzazione dello strumento di difesa nazionale per concentrarsi sulla sicurezza sanitaria.

Questo metterebbe la presidenza USA davanti alla scelta: continuare a difendere l’Europa compensando le sue debolezze militari, rendendo così le proprie forze armate relativamente più deboli in altre aree del mondo, o abbandonare l’Europa e l’idea di Transatlantic Link per gravitare in aree di maggiore interesse economico USA quali il Pacifico.Partendo dal presupposto che Pechino e Mosca non sono capitali di paesi da additare ad esempio di “Democrazia”, essi potrebbero sfruttare la possibile “debolezza” sociale e politica americana conseguente dal Virus per esercitare pressioni sia sugli Stati Uniti stessi sia sui loro alleati, politicamente ed economicamente più deboli, aumentando in maniera esponenziale la loro attività di soft power.

È probabile che i già insufficienti (a parere di Trump) investimenti nel settore della difesa europea diminuiranno ulteriormente dopo la crisi da virus, ma, contemporaneamente, la portata in numero e impegno di forze delle possibili missioni NATO potrebbe accrescersi.

Nel contempo è indubbio, poi, che l’ascesa militare della Cina aggraverà il sovraccarico di risposta militare americano, ma senza un aumento della spesa militare le capacità militari europee non saranno in grado pareggiare l’impatto delle nuove tecnologie nello spazio di battaglia, come l’intelligenza artificiale, i super computer, la minaccia spaziale in cui cerca di inserirsi anche l’Iran.

Chi conosce bene la NATO e i suoi meccanismi di funzionamento e attivazione sa che a Brussels inizia a serpeggiare il citato dilemma strategico, esemplificabile nel semplice assunto che le crisi non arriveranno in pacchetti singoli.

Il dilemma è come garantire alla NATO le capacità per fare azione di difesa e deterrenza sui suoi fianchi orientali e settentrionali e simultaneamente sostenere gli alleati sul suo fianco meridionale in caso che continui il caos in Medio Oriente e Nord Africa.

In questo quadro emerge con forza in queste ore la questione: come farà la NATO a gestire il suo ormai scomodo membro turco che cerca di espandere la sua influenza proprio in queste due aree?

La sola risposta è di ricercare un notevole miglioramento dell’interoperabilità delle forze armate europee (escludendo per il momento la Turchia) con le controparti statunitensi e strutturare consultazioni politiche molto più veloci tra USA e UE. 

Bisognerebbe ideare una “Forza Europea” con la capacità di assicurare difesa e deterrenza in caso di emergenza quando grande parte delle forze statunitensi sono impegnate in altre zone del mondo. La Forza Europea dovrebbe essere capace di una buona interoperabilità con la futura Forza Americana.

Non deve essere un’utopia pensare a un partenariato strategico NATO-UE in grado di proiettare potere e proteggere le persone spostando rapidamente, in emergenza, forze e risorse in Europa e nei dintorni per sostenere la dissuasione e strutturare una difesa. Tale dimensione del partenariato conterrebbe anche l’arroganza di Ankara.

La NATO è in definitiva un’assicurazione strategica contro la guerra in un mondo instabile in cui strategia, tecnologia, capacità e convenienza si combinano per alleati e avversari.

La NATO deve quindi essere un deterrente militare di alto livello ispirata al “Si vis pacem, para bellum”.

Soprattutto, gli europei dovrebbero entrare nell’ottica che nel prossimo decennio gli Stati Uniti saranno in grado di “garantire” la difesa dell’Europa solo se gli europei faranno molto di più per la propria difesa.

Virus di Wuhan o no tra poco sarà in gioco il futuro della NATO.

Se un giorno non tanto lontano non riusciremo a modernizzare la nostra Alleanza, la Cina comunista e, probabilmente, la Russia potrebbero trarne enormi vantaggi.

                                                                                                                                                                                                                                   

                                                                                                                                                                                                                                                      Generale Giuseppe Morabito

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Esteri. Da Taiwan al virus di Wuhan, non c’è bisogno di chi tace e acconsente.

Quando un analista si cimenta nell’esame degli effetti del CV19 sulle relazioni internazionali, deve sempre partire da due certezze assolute.

La prima è che nella storia recente del nostro pianeta la minaccia per la salute globale, l’economia, il commercio e il turismo a causa della possibile diffusione di malattie infettive non sono mai da escludere o diminuiti nel tempo.

La seconda è che le pandemie possono diffondersi rapidamente in tutto il mondo a causa della facilità con cui oggi si possono organizzare sia dei trasporti internazionali, sia gli spostamenti di chiunque voglia viaggiare nel pianeta.

Tra gli esempi più famosi vi sono la febbre spagnola del 1918, l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) del 2003 e l’influenza H1N1 del 2009. In maniera intermittente, anche gravi epidemie regionali, come la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) nel 2012, l’Ebola nell’Africa occidentale nel 2014 e il virus Zika nell’America centrale e meridionale nel 2016. Oggi, la nuova forma di polmonite, emersa per la prima volta a Wuhan, nella Cina comunista, alla fine del 2019 e che da allora è stata classificata come malattia da coronavirus 2019 (COVID-19), ha causato in tutto il mondo, a oggi, secondo l’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) circa quattro milioni di positività al virus e più di 260.000 deceduti.

Al momento tutti s’interrogano e cercano di capire quali siano le origini del virus, ma una cosa è certa: il virus è partito dalla città di Wuhan e, se non si vuole cambiare, anche la storia dovrà essere ricordato per sempre come il “Virus di Wuhan” perché’ storicamente si è sempre fatto cosi.

Esempio triste, il nome del gas Iprite che fu usato come aggressivo chimico per la prima volta dai tedeschi, durante la Prima guerra mondiale, nel settore di Ypres (Belgio, 1917), città da cui prende nome. Sempre di quegli anni si ricorda l’influenza Spagnola che fu chiamata così, non perché veniva dalla Spagna, ma perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli. Infatti, la stampa degli altri Paesi, che era sottoposta alla censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia sostenendo che il problema fosse confinato alla Penisola Iberica. Negli anni passati si è parlato del contagio da virus Ebola che prende il nome di una zona del Congo, in cui fu scoperto nel 1976.

Non siamo in guerra e siamo nel terzo millennio, la Cina comunista e i suoi sostenitori, spesso impauriti dalle possibili ritorsioni, accettino almeno il nome “Virus di Wuhan o Virus Cinese” e non facciano propaganda ostinata al nome tecnico CV 19.

Gli “impauriti” sono stati oggetto della campagna cinese di “soft power”, purtroppo efficace anche in Italia, che persegue principalmente obiettivi sia interni al paese sia esterni verso l’opinione pubblica del resto del mondo.

In Cina il partito comunista vuole fa passare al suo popolo “che Pechino ha salvato il mondo dal coronavirus e che la comunità internazionale riconosce gli sforzi di Pechino per affrontare l’epidemia”.

All’estero Pechino tenta di far passare, verso l’opinione pubblica, la “super balla” che la pandemia non ha avuto origine a Wuhan, e di trasformare l’immagine della Cina comunista da quella di “untore” a quella di “salvatore” del mondo utilizzando la cosiddetta “diplomazia delle mascherine regalate insieme a qualche altra strumentazione ormai in esubero negli ospedali cinesi o ormai non di più di necessaria produzione” (ci regalano gli esuberi di magazzino!).

La pandemia tragicamente in corso ha fatto da ulteriore propellente al latente stato di conflitto USA – Cina comunista.  Dai propri alleati NATO, Washington si aspetta lealtà e lo fa capire chiaramente. Per chi si sente sotto pressione per la stagnazione economica e attacco” batteriologico”, infatti, l’atteggiamento attendista e impaurito di un “Amico Storico” e spesso debitore morale di libertà democratica (Italia in testa, basta andare al cimitero militare di Anzio o rileggere il piano Marshall) equivale esso stesso alla sconfessione dell’Alleanza Atlantica e del sempre dichiarato “Transatlantic Link” (legame transatlantico).

In queste ore, comunque, non si discute solamente della proposta d’inchiesta sulle origini del virus. Si rivolge, finalmente, anche un’attenzione importante al futuro.

Il 18 maggio, in video conferenza, l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), ha organizzato una conferenza su come contrastare il virus. Altro tema che promette di infuocare lo scontro tra Cina e Stati Uniti, come se non bastasse quello sull’origine dello stesso, sarà infatti la partecipazione ai lavori di Taiwan.

L’OMS infatti su forte influenza di Pechino non riconosce Taipei e non consente l’integrazione dell’isola.

Per quanto riguarda l’ipotesi dell’incidente nei laboratori di Wuhan, molto sostenuta dall’intelligence USA tra qualche scetticismo e forti possibilità si sviluppano discussioni e si sentono pareri disparati secondo gli sponsor politici ed economici di chi prende posizione. È però certo che se Pechino intende intestarsi parte dei destini del mondo, deve pur confermare che ha la capacità di gestire le potenzialità tecnologiche acquisite soprattutto nel settore della bio-sicurezza e saper controllare i laboratori iper-specializzati come quello di Wuhan.

Per la situazione di contrasto con Taiwan c’è uno “stato di fatto” per cui Pechino, che non riconosce la sovranità di Taipei, considera l’isola una provincia da riunificare non tenendo per nulla in conto del fatto che ultimamente gli Stati Uniti hanno riconfermato che il loro impegno di contrasto dell’espansionismo politico, militare e territoriale del grande paese comunista anche nel Mar Cinese.

Tale attività di contrasto prevede anche il rinnovato sostegno alle legittime richieste taiwanesi in ambito internazionale e al governo democratico della Presidente Tsai.

La Repubblica di Cina, nome ufficiale di Taiwan, è considerata in tutto il mondo il modello nel contenimento dell’epidemia. Infatti, nonostante la prossimità geografica e le strette relazioni commerciali e turistico/sociali con la Cina comunista (chiamata dai Taiwanesi “Mainland” –“Madre Patria”), attuando una strategia tempestiva ed efficace, Taipei è riuscita a limitare a soli sei decessi il bilancio del contagio e non ha dovuto neanche attuare le misure di “lockdown”.

Tale positivo risultato è conseguenza del fatto che quando le informazioni concernenti un nuovo focolaio di polmonite sono state confermate per la prima volta il 31 dicembre 2019, Taiwan ha iniziato a implementare con immediatezza la quarantena a bordo dei voli diretti da Wuhan. Il 2 gennaio 2020, Taiwan ha istituito un team di risposta per la malattia e attivato il Central Epidemic Command Center (CECC- Comando Centrale per l’Epidemia) che è stato in grado di integrare efficacemente le risorse di vari ministeri e di impegnarsi completamente nel contenimento dell’epidemia.

Nonostante la citata vicinanza alla Cina, Taiwan si è classificata al 123° posto su 183 paesi in termini di casi confermati per milione di persone. Quanto precede, è la prova che gli sforzi di Taiwan per controllare l’epidemia stanno funzionando.

Per fare un esempio, non con l’intenzione di creare un negativo confronto con l’Italia, il 12 marzo il governo di Taipei ha messo in atto un’applicazione, relativa alle mascherine, che consente alle persone di ordinare online e ritirare le stesse presso i minimarket.

Inoltre, se si concorda che la sicurezza sanitaria globale richiede gli sforzi di ognuno per garantire una risposta ottimale alle minacce e alle sfide della salute pubblica si deve convincere Pechino che Taiwan, sebbene non membro dell’OMS, non può stare da sola e deve essere inclusa nella lotta globale al virus.

La sintesi di quanto precede è che se la missione dell’OMS è davvero di garantire il più alto livello di salute raggiungibile per ogni essere umano, allora l’OMS ha bisogno di Taiwan proprio come Taiwan ha bisogno dell’OMS.

Per terminare, non va fatto passare sotto silenzio che la scorsa settimana durante la pausa delle dimostrazioni di strada seguite alle “restrizioni da virus” ci sono stati arresti di attivisti anti comunisti nel territorio, ancora parzialmente autonomo, di Hong Kong che evidenziano come il regime cinese stia cercando di trarre vantaggi dal lockdown per inasprire la repressione e minare lo stato di diritto.

Tale strategia potrebbe in futuro minacciare anche Taipei e la sua democrazia. Solo Washington e Londra hanno protestato. Europa, Italia compresa, ha utilizzato la strategia del tacere…che sa tanto di “assenso da impaurito”.

                                                                                                                                                                                                                                                           Generale Giuseppe Morabito