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Legnano

Il Palio di Legnano. Tra cancellazione e comunità

Tra fine maggio e inizio giugno di ogni hanno si assiste a una rievocazione storica molto importante. Nella città di Legnano si ricorda quella che fu una delle più importanti battaglie della storia italiana. La Battaglia di Legnano. Avvenuta il 29 maggio 1176. La si ricorda con il noto Palio. Ricorrenza che accoglie nella cittadina migliaia di visitatori e amanti di storia e tradizione. Quest’anno si sarebbe dovuto assistere all’evento il 31 maggio. Sarebbe. Se non fosse stato annullato per la prima volta dopo decenni. Cancellato da un virus che sta mettendo in sospeso molti eventi e vite nel mondo.

È di fine marzo la notizia dell’annullamento. Decisione presa dal gran maestro del Collegio dei capitani, dal supremo magistrato e dal presidente della Famiglia Legnanese. Decisione non facile, sicuramente sofferta, ma necessaria. Una decisione che porta con se un’amarezza tangibile. Amarezza dettata dal fatto che la sospensione è stabilita da una causa di forza maggiore. Amarezza perché quest’anno non si potrà più festeggiare, ricordare un avvenimento così importante. Evento che vede arrivare in città diversi turisti da molte parti della Lombardia e d’Italia. Avvenimento che porta con se gioia, unione, felicità. Gioia e comunione che almeno per ora si devono mettere da parte per un bene comune più grande. La sicurezza di tutti.

Il Palio di Legnano, ogni anno trascina con se questo. Un insieme di giocondità, coesione, sforzi e soddisfazioni. Ricordando il noto avvenimento. Facendo scaturire alla memoria dei cittadini la lotta fra la Lega Lombarda e il Barbarossa. Il Palio crea un clima cittadino diverso. Un clima che in molti altri eventi non è riscontrabile. Un’atmosfera di unione. Di unità tra cittadini della città. Tra persone, amatori della storia e della cultura. Un’atmosfera di coesione tra le diverse contrade. Contrade che, anche nella sfida, cooperano fra loro per il raggiungimento di un bene comune. Per la buona riuscita del più grande evento cittadino.

Questo senso di comunità deriva dal ricordo di un altro senso di appartenenza. Più lontano dai tempi odierni. Il senso identitario della Lega Lombarda. Lega che nel 1176, dopo anni di lotte, sconfisse il grande Impero. Quello che era visto come il nemico delle libertà dei comuni. Il Sacro Romano Impero. Con a capo Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa. Impero che si estendeva grosso modo fino all’attuale centro Italia. Impero contrastato in diverse battaglie col fine di acquisire una maggiore autonomia comunale.

Un parallelismo importante. Un filo connettore tra i comuni dell’epoca e le contrade odierne. Come i comuni, durante questi anni medievali, misero da parte gli asti per il raggiungimento di un fine comune, così lo fanno tutti gli anni le contrade legnanesi. C’è sfida, c’è competizione, c’è brama di vittoria. È innegabile. Ma tutto questo è secondario. Viene dopo l’impegno e la coesione per il raggiungimento di un obiettivo più rilevante. La buona riuscita dell’evento.

Il Palio di Legnano, oltre alla sua importanza storica, trascina con se diversi aspetti simbolici. È sì importante la rievocazione storica della battaglia. Ma lo è anche l’aspetto simbolico. La simbologia che rimanda a un’unità. Unità rappresentata dalle contrade, dall’impegno che queste mettono nella realizzazione, ma soprattutto unione riscontrabile nel simbolo dal guerriero. Il guerriero di Legnano. Il guerriero rappresentante la lotta a questo potere più forte. La lotta al Sacro Romano Impero. Un guerriero che con tutte le sue qualità raffigura unione, purezza, coraggio assoluto. Un simbolo ripreso più volte nella storia nazionale – non solo durante il Palio – a rappresentare questa genuinità e questo coraggio del popolo italiano e non.

Il Palio di Legnano non è, o meglio non è solo, una rievocazione storica fine a se stessa. È un momento in cui si celebra l’unione cittadina. In cui si ricorda e si festeggia un apparato simbolico non solo legnanese, non solo lombardo, ma italiano. Un mondo di simboli che sono stati nella storia della Nazione italiana, utilizzati, omaggiati, semplificati, complicati, denigrati e cambiati. Un universo simbolico che vede la sua rievocazione ogni maggio. Ogni ultima domenica di maggio, sin dal 1935. Data della sua istituzione, col nome di Sagra del Carroccio. Nome poi cambiato in Palio di Legnano nel 2005.

Ogni ultima domenica tranne quella di quest’anno. Quest’anno il palio non si farà. Quest’anno questo evento rappresentante l’unità viene spazzato via da un virus simbolo di separazione. Da un agente che è simbolico di quella disgregazione che il Palio ogni anno contrasta. Sebbene abbiano spostato alcuni eventi contradaioli sul web, quest’anno non si assisterà alle cene delle contrade. Non si assisterà alla famosa sfilata, alla corsa e a tutte quelle manifestazioni che contribuivano a creare questa giornata e queste settimane di festa e di ricordo.

Quest’anno non sarà ricordata questa vittoria, questo intento di unione, questa simbologia tanto cara all’Italia. Apparato simbolico così importante da essere più volte ripreso durante gli anni della vita della Nazione. Sin dalla sua nascita. Il grande poeta Giovanni Berchet, durante gli anni risorgimentali, celebra in una sua opera questa unione. Omaggia il Giuramento di Pontida che portò alla creazione della Lega Lombarda. Lega che sconfisse il grande nemico dell’epoca. 

Il piccolo esercito poco attrezzato viene celebrato anche nell’Inno italiano. In questo, infatti, l’unica città a essere citata oltre alla capitale è proprio Legnano. Comune diventato simbolo grazie alla battaglia avvenuta sul suo suolo. Suolo che in realtà non era propriamente quello legnanese. Secondo fonti storiche infatti la battaglia avvenne in un altro comune. Quello di Borsano. Ma questo non importa. Nel ricordare un avvenimento storico e simbolico così importante non è essenziale attenersi alla verità.

Nella costruzione di un mito, di un simbolo come quello della Battaglia di Legnano, l’attinenza ai fatti storici non è importante quanto la voglia di rappresentare un’idea. Il senso di unità, il coraggio, l’unione che contrasta il grande e insormontabile nemico prevale sulla realtà. Nella storia dell’utilizzo di questo evento, si è sempre data più importanza a quello che rappresenta. Alla costruzione immaginaria e simbolica degli eventi. Costruzione fatta sin dal Risorgimento. Costruzione che è necessaria per tramandare un senso di appartenenza. Italiano, regionale, di partito o cittadino che sia.

Storicamente è documentato e studiato che nella costruzione simbolica di un’appartenenza, di un gruppo, di una Nazione la rielaborazione del passato è necessaria. Questa rielaborazione è obbligatoria affinché si trovino dei simboli che abbiano il compito di creare questa unione, questo senso di appartenenza. Come affermò il grande sociologo Benedict Anderson nel suo libro Comunità immaginate, ogni comunità, ogni gruppo usa un certo spettro simbolico. Utilizza una serie di simboli utili a creare, sostenere e rafforzare il senso di appartenenza. Un senso di appartenenza identitario.

In questo particolare caso la Battaglia di Legnano e la simbologia creata intorno a essa, sono state spesso simbolo di un’identità di volta in volta diversa. La battaglia e la Lega Lombarda, durante il Risorgimento, furono prese a simbolo di un’unità italiana da conquistare. Furono presi come simboli di lotta e di coraggio dal fascismo. Come simbolo di italianità da diverse aziende. Come simbolo di unità padana dalla Lega Nord, nei primi anni della sua esistenza. Ma soprattutto come simbolo di unità cittadina e comunione di intenti dalla città di Legnano.

Questa città dell’hinterland milanese e le sue contrade, i suoi cittadini riscoprono tutti gli anni, questo avvenimento storico e la simbologia che gira intorno a esso. Ogni anno Legnano, la sua cittadinanza (e non solo) riorganizzano questo evento e celebrano i suoi simboli per rinnovare il senso di appartenenza identitario costruito nei decenni.

Annualmente la cittadinanza riscopre la sua identità, reale o simbolica, fittizia o meno, grazie a un evento aggregatore come questo. Un evento che quest’anno non potrà vedere la luce del sole. Un evento che in quanto simbolo di comunità, di aggregazione è stato sospeso e cancellato da un virus. Da un agente esterno portatore di un’identità ben diversa. Di un’identità che contrasta e si oppone a quella della manifestazione. Un’identità di disgregazione, di separazione.

 

Linda Lapersi

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CULTURA

Sandro Botticelli e la “Primavera”, tra rinascita e scoperta

Dipinta attorno all’anno 1478, la Primavera è una delle opere più esemplificative di Botticelli. Artista rappresentativo dell’umanesimo toscano. Fortemente legato alla corte medicea, in particolar modo a Lorenzo il Magnifico. Con esso condivide l’importanza del concetto di armonia. Armonia che traspare, sgorga dalle sue opere. Specificatamente da questo capolavoro di fine Quattrocento.

Un quadro che racchiude in sé diverse idee. Quella dell’armonia e della semplicità, legata al gusto di Lorenzo. Quella del superamento della prospettiva. In quest’opera, infatti, si nota la poca accentuazione della profondità dello spazio. La stilizzazione, il disegno sottile, che rende tutto più leggero e armonioso. Visibile soprattutto nel prato, nei suoi fiori e nelle figure quasi immateriali da quanto leggiadre. Tutto questo rende il mondo di Botticelli e la realtà dipinta immaginaria, irreale, lontana dal mondo tangibile.

La Primavera, grazie a questi tratti, ci illustra l’amore indirizzato verso un mondo spirituale, immateriale e immaginario. Rappresenta l’aspirazione a un universo perfetto sul versante dello spirito, in completa armonia. Due qualità che scaturiscono grazie a questo disegno delicato. Lieve come la primavera rappresentata nel dipinto. Primavera che porta con sé una nuova nascita. Una rinascita dell’amore. Una rinascita all’insegna della perfezione, dell’armonia, quindi di un miglioramento.

In questo quadro vi si trova un senso di pace ineguagliabile. Le figure, armonicamente disposte, non rappresentano un atto preciso. È come se, con una leggiadria stravolgente, seguissero un moto musicale. Senza prospettiva, con tratti leggeri, queste figure fuori dal tempo galleggiano in  uno spazio indefinito, immaginario. Uno spazio di rinascita, di amore. Uno spazio nuovo, irreale, inconsistente. Uno spazio che porta con sé concetti e ideali innovativi.

Non a caso, il grande Maestro, ha scelto un’ambientazione e un soggetto così. La primavera, la natura sono da sempre utilizzati per raffigurare una nuova nascita. Un lasciare indietro il passato, un vecchio paradigma, per inseguirne uno nuovo. Durante la primavera i fiori sbocciano. Il sole si svela e fa da padrone a un cielo rimasto per troppo tempo plumbeo. Risveglia l’amore e i sentimenti. Fa diventare tutto più lieve, più fresco. Come se si uscisse da un brutto sogno e il nuovo mondo si palesasse.

La primavera, il risveglio dell’amore, la rinascita della natura portano con sé un’armonia rimasta per diversi mesi celata. Armonia che si sta scoprendo soprattutto in questo particolare momento storico. In una situazione d’incertezza. In cui tutte le sicurezze preesistenti stanno crollando. In un momento così delicato si sta assistendo a una rinascita. Una rinascita di ideali, di speranze, di affetti. Una nuova nascita che va di pari passo con una primavera anomala.

Una primavera che come quella di Botticelli risulta agli occhi degli esseri umani immaginaria, immateriale. È come se tutto fosse in sospeso. Un mondo congelato che, però, risparmia la natura e gli affetti. Nell’essere attaccati a un momento di insicurezza una cosa è certa. Il mondo va avanti, la natura si risveglia, la primavera prende i suoi spazi. L’amore e gli affetti sono tra noi, anche se in forme differenti.

Ci si ritrova come le figure del quadro. Sospesi in un mondo in rinascita. Assistiamo a un risveglio poco avvertito prima d’ora. Sfuggito alla nostra attenzione in quanto rinchiusi in un mondo diverso, materiale, che inghiottiva e risputava tutti più stanchi. Distratti e stanchi. Allontanati da un universo che ora appare come irreale ma che – come nella Primavera – può riservare una forte armonia smarrita da tempo.

Ci si ritrova in un periodo con nuove esigenze. In cui tutti si stanno riscoprendo con nuovi obiettivi e, perché no, con nuovi ideali. Si è spinti a voler uscire semplicemente a passeggiare. Camminare per ammirare questo risveglio primaverile, agli occhi nuovo. Passeggiare in un parco, in un bosco, al fianco di persone care. Riscoprendo l’affetto e l’amore che venivano offuscati dalla frenesia e dalla fame di lavoro e di shopping. Si assiste a un ritorno alla natura. Inteso come un ritorno alla scoperta di questa. Alla scoperta del bello e dell’armonia che il paesaggio ci dona.

Si sta assistendo a una modifica del paesaggio in cui si è immersi. Un paesaggio un po’ più botticelliano. In cui prevale l’armonia, la leggerezza, la vita. In cui scaturisce l’importanza di un amore spirituale. Di una rinascita della natura che è anche rinascita degli affetti. Si è forse davanti a un rinascimento? Un ritrovamento di vecchi ideali e abitudini che, forse, non erano dimenticate ma solo nascoste? Nascoste come una perla. Difficile da trovare. Ma quando la si ha davanti è come riscoprire qualcosa di perduto e agognato. Qualcosa di piccolo e importante. Da custodire e far sì che non si scalfisca e non si perda mai più.

Linda Lapersi

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CULTURA

Ernest Hemingway a 67 anni dal Pulitzer

Ernest Hemingway – noto scrittore del Novecento – 67 anni fa vinse il più prestigioso premio statunitense per il giornalismo, per i successi letterari e per le composizioni musicali. Ottenne il Premio Pulitzer con la sua opera “Il vecchio e il mare”. Esattamente il 4 maggio 1953. Ritenuto uno dei suoi romanzi migliori insieme a “Il sole sorgerà ancora”, “Addio alle armi” e “Per chi suona la campana”.

Il Premio venne istituito alla morte di Joseph Pulitzer. Decesso avvenuto nell’anno 1911. Fu questo editore e giornalista a lasciare la sua eredità alla Columbia University. Università che grazie a questo gesto fondò, insieme alla sua rinomata facoltà di giornalismo, il Premio stesso. Fu lo stesso Pulitzer nel suo testamento a dettare le categorie a cui conferire i premi. Successivamente ampliate.

Nelle categorie aggiunte successivamente troviamo quella in cui vinse il famoso scrittore. L’importanza di questo autore venne sancita con la vincita del Premio Pulitzer per la narrativa. Grazie a un breve romanzo che racconta il coraggio di un uomo, la sua perseveranza e il suo sfidare il destino. Così come il rapporto con la natura e la contraddizione di questa.

Racconta il tutto con un suo stile che lo contraddistingue. Un’opera caratterizzata da una semplicità disarmante, una prosa semplice, essenziale, asciutta. Un nuovo stile riconoscibile, contrassegnato da frasi brevi, tutt’altro che complesse. Uno stile che accompagna temi all’apparenza superficiali. Superficialità che nasconde. È come un manto che oscura il vero significato dell’opera, quello che Hemingway vuole trasmettere. Un significato più profondo, che riflette particolari dell’esistenza.

Le tematiche di cui quest’autore si fa portavoce sono molte. Il coraggio dell’Uomo nel compiere il suo dovere, la lotta contro il destino, la natura e la sua sfida, la morte, l’amore e la guerra. Proprio questa è presente in molti dei suoi romanzi. Uno fra tutti è il suo Per chi suona la campana.

Romanzo pubblicato nel 1940, racconta l’esperienza in guerra dello stesso Hemingway. Attraverso un alterego, Robert Jordan, racconta la Guerra Civile Spagnola. Conflitto in cui lui stesso prese parte come corrispondente di guerra a fianco dell’esercito popolare repubblicano. In questo romanzo ritroviamo alcuni dei temi salienti dell’Opera dello scrittore. La morte, il sacrificio per una causa e l’ideologia (politica).

Robert Jordan è un intellettuale americano arruolato con i repubblicani. Incaricato dall’Unione Sovietica. Il suo compito è quello di distruggere un ponte nella Spagna sempre più franchista. Il suo incarico era di eseguire azioni di sabotaggio nei confronti dell’esercito di Franco. Ambientato nel 1937, racconta una delle guerre più atroci, assurde e dimenticate del Novecento. La Guerra civile spagnola (1936-1939).

Guerra contraddittoria e feroce che vide il contrapporsi di due schieramenti. Quello nazionalista (franchista) e quello Repubblicano. Furono le forze repubblicane che poterono giovare dell’aiuto di diversi volontari. Volontari molto spesso provenienti da Nazioni differenti che semplicemente abbracciarono le istanze di questo fronte.
È proprio tra queste linee che si trovò Hemingway. È da qui che raccontò una Guerra troppo spesso lasciata alla memoria di storici e poco spesso tramandata. Un conflitto attraverso il quale poté far trapelare le sue tematiche care. La morte, l’amore per la terra spagnola, il destino, il suicidio.

Una guerra civile caratterizzata da record e novità tragiche. Tra queste, da annoverare, è il primo bombardamento nella storia indirizzato verso un bersaglio civile. Non strategico, non militare ma civile. Verso una cittadina di rilevanza prettamente simbolica. Bombardamento più volte ripreso da artisti, tra i quali Picasso. Il bombardamento di Guernica, del 26 aprile 1937, è sicuramente uno degli episodi più memorabili e cancellati dalla memoria della storia europea.

Un evento emblema di questa Guerra raccontata da Hemingway; ma anche da Orwell, André Malraux e molti altri. Una guerra che anche se tralasciata dai programmi di studio, è considerata la vera e propria “prova generale” della Seconda Guerra Mondiale. Già in quest’occasione si sono palesati agli occhi del Mondo gli schieramenti che scesero in campo nel secondo conflitto mondiale. Così com’ è considerata un banco di prova per quanto riguarda le nuove strategie e le nuove armi utilizzate successivamente. Dal bombardamento su soggetti civili alla guerriglia.
Tutto sommato una guerra civile non è altro che un conflitto intestino. Interno allo Stato, alla popolazione. Un conflitto caratterizzato da ideologie importanti, raccontate da molti intellettuali. Una guerra tra spagnoli e spagnoli che Hemingway riesce perfettamente a portare fino al nuovo Millennio.

È da qui che si deve partire per analizzare i conflitti vissuti fino a oggi. Grazie a questi romanzi giungono al 2020 testimonianze di una guerra che è stata replicata nel tempo. Riproposta con diverse metodologie, in diversi contesti geografici, politici e storici. Una guerra come quella raccontata da Hemingway può risultare lontana, remota. Non è affatto così.

Il Mondo intero, non solo l’Occidente, ha vissuto guerre civili atroci e subdole. Conflitti che hanno visto lo schierarsi di fronti opposti. Rappresentati però da soldati e civili con ugual cittadinanza. Guerre spesso dimenticate, tralasciate, poco raccontate. Che a differenza della guerra spagnola, non hanno assistito a una così importante vivacità letteraria postuma. Vivacità che nonostante tutto veicola ai più la memoria.

Troppe sono le guerre civili dimenticate o non considerate come tali. Raccontate da giornalisti e scrittori importanti, ma studiate superficialmente. Trasmesse ai posteri da professionisti autorevoli, in primis la conosciutissima Fallaci, ma accantonate. Subito relegate in quell’angolo della memoria che non viene mai aperto, toccato, stimolato.

Conflitti che non vengono visti come tali, perché non possiedono gli elementi tipici di una guerra. Non possiedono armi, sangue, terrore. Al contrario possono rivelarsi ugualmente terribili e spietati. Sono quei conflitti che non usano le armi ma il potere di sottomissione. Quei conflitti che ospitano in sé la morte, ma non il sangue sparso. Quei conflitti che vedono serpeggiare il terrore all’interno di una comunità, ma molti della stessa non lo percepiscono.
Sono quelle guerre che andrebbero raccontate alla stregua della Guerra Civile Spagnola di Per chi suona la campana. Sono quelle guerre che vedono il contrapporsi di ricchezza estrema e povertà dilagante. Quelle guerre in cui si assiste a uno scontro non più militare ma generazionale, sociale, politico, tecnologico e psicologico. Uno scontro che non porta a morti immediate, ma assiste comunque a decessi. Alla dipartita di ideali e di pensieri. All’oscuramento di una parte della popolazione. Siano essi i giovani, gli anziani, le persone poco scolarizzate, i poveri e i nuovi poveri.
Sono queste guerre che andrebbero raccontate alla stregua dei conflitti più conosciuti. Per essere ricordate e non relegate all’oblio della storia reputata come secondaria. Andrebbero raccontate come Hemingway, Orwell e altri scrittori raccontarono la Guerra civile spagnola. Come una guerra interna alla Nazione, alla popolazione. Che vede il tragico scontrarsi di persone che sono o che erano amici, parenti, colleghi, vicini di casa, compagni di scuola, coniugi. Persone che un secondo prima sono vicine a te e un secondo dopo si tramutano in nemici da combattere.

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CULTURA

Il Fondo Ambiente Italiano – FAI. 45 anni di storia

Il Fondo Ambiente Italiano nacque il 28 aprile 1975. La sua missione è “tutelare e valorizzare il patrimonio storico, artistico e paesaggistico italiano”. Si occupa di tutelare beni ricevuti grazie a donazioni, in eredità o in concessione. Dal primo bene concesso nel 1977 è sempre presente per la valorizzazione di un patrimonio troppo spesso ignoto e inesplorato.

Spesso si ha la sensazione di conoscere quello che si ha attorno. Raramente questo è vero. Frequentemente si pensa di avere nozioni sul patrimonio che si trova accanto a noi. A volte quest’affermazione è veritiera. Molte altre non c’è altro di più lontano dalla realtà di questa consapevolezza.

Sono le scuole che si occupano di trasmettere la conoscenza dell’esistenza stessa del Fondo. Attraverso uscite didattiche e in aula. Troppe volte questo trasferimento di sapere viene tralasciato perché di minore importanza. Specialmente in una Nazione in cui lo studio delle arti, della letteratura e della storia è considerato come uno svantaggio per l’esistenza di una persona. In cui questi studi subiscono la reputazione di discipline minori. In cui sono soggetti a derisione e scherno.

Si ha la sensazione che un luogo storico-artistico sia meno importante di una formula matematica. Senza nulla togliere alle altre discipline, si rischia di polverizzare l’importanza del patrimonio. Di disperdere l’arte, la cultura, la storia a fondamento di una comunità.

Si conosce più il lontano del vicino. In un’epoca caratterizzata da un’esterofilia dilagante, quello che si ha a portata di mano sfugge. In un mondo sempre più globalizzato ci si dimentica di quello che si ha vicino. Sia nelle relazioni sia per quanto riguarda il patrimonio che ci circonda. Si è in presenza di una società che, giustamente, reputa necessaria la scoperta del nuovo e del diverso. Molto spesso però, ingiustamente, dimenticando quello che ha al proprio fianco. Una realtà vicina geograficamente ma che diventa sempre più distante.

Così com’è importante lo studio e la conoscenza della fisica, della chimica, della grandezza di un pianeta piuttosto che dell’anatomia di un elefante; lo è quello della storia della regione lombarda, dei suoi siti artistici e culturali. Così com’è importante lo studio del funzionamento di un motore, è importante la conoscenza e la valorizzazione delle Saline Conti Vecchi a Cagliari. Così com’è necessaria la trasmissione della cultura e della storia egizia, cinese o mbuti, lo è quella della cultura medievale lombarda o trentina. È così ugualmente necessario lo studio di una pratica Yanomami e lo studio della nascita e dell’utilizzo del Castello di Avio.

Il FAI si occupa di questo. Di preservare, valorizzare e trasmettere a questa generazione e a quelle future, il paesaggio, i monumenti, la cultura e l’arte che servono a studiare e capire il presente. Come possiamo pensare di capire l’odierno – in tutte le sue sfaccettature – se non studiamo il passato? A partire dal passato che ci circonda.

Il primo bene di cui si occupò il Fondo è Cala Junco (Isola di Panarea) – caletta donata da Pietro di Blasi nel 1977. Non tutti sanno però che tra le prime donazioni ci fu il Monastero di Torba – monastero di origini romane a Varese. Il sito vanta di essere il primo bene restaurato dal Fondo. Restauro che portò alla luce gli affreschi del periodo longobardo.

Proprio nella Provincia di Varese sono presenti diversi beni gestiti dal FAI. Casa Macchi a Morazzone, la Torre di Velate e soprattutto – la più famosa – la Villa e Collezione Panza. Donata al FAI nel 1996 da Giuseppe e Giovanna Panza, è una villa settecentesca. Vi è presente una collezione di arte contemporanea statunitense e ospita diverse mostre.

Perché, nonostante questo, è così poco conosciuta ai più nonostante la sua importanza? Perché è così poco studiata e visitata anche da studiosi e professionisti del settore artistico e culturale? A volte studiosi e insegnanti trascurano questi siti considerati minori a favore di altri più conosciuti, maggiormente degni di nota. Reputandolo di minore importanza si ha il rischio di non inserirlo nella lista dei beni degni di essere veicolati alla memoria dei posteri.

È grazie al Fondo Ambiente Italiano se questi beni, questi siti, vengono tutelati e valorizzati. È grazie ai suoi lavoratori e volontari se vengono preservati e la loro memoria viene divulgata. Se viene diffusa la storia, l’arte, il paesaggio di un territorio attaccato da spinte esterofile importanti e sempre più penetranti e invasive.

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Cronaca

Raffaello, La Scuola di Atene 500 anni dopo

Nessun pittore fu tanto importante nella storia come lo fu Raffaello Sanzio. Maestro tra i maestri.
Genio che influenzò per sempre l’arte e la cultura occidentale.

Nell’anno dell’anniversario della sua morte, lo si vuole ricordare con un’opera che è tanto lontana nel tempo quanto attuale nello spirito.

Morì a Roma il 6 aprile di 500 anni fa, alla sola età di 37 anni. Ma fu a Perugia che si formò. Precisamente nella bottega di Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino. Già dai suoi primi lavori si manifestarono le caratteristiche pittoriche che lo portarono a essere considerato uno dei più grandi artisti della storia.
Se è vero che l’arte rispecchia l’anima, è vero che questo è valido per Raffaello Sanzio da Urbino.

Dalle sue opere traspare una grande naturalezza, una calma, un’armonia che lo contraddistinguono e lo distinguono dai suoi contemporanei. Non a caso Vasari descrisse l’artista come dotato dalla natura di modestia, bontà e di una graziata affabilità. Doti che si palesano agli occhi osservando le sue opere.

È in queste che risplendono “tutte le più rare virtù dell’animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi” (Vasari).

In questo periodo – nell’anno dell’anniversario della sua morte – cos’è più attuale di questo artista? Pittore la cui arte ha contribuito alla crescita della cultura e della pittura occidentale.
Nell’incertezza di oggi cos’è più rassicurante dell’eternità, della calma e della serenità delle sue opere? In queste settimane cos’è più lontano nel tempo, ma allo stesso tempo più vicino nello spirito, del più famoso affresco del Maestro?

La Scuola di Atene (1510, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura) è l’opera più celebre e rappresentativa di Raffaello. Commissionatagli dall’allora Papa Giulio II per la Stanza della Segnatura, l’affresco raccoglie tutte le caratteristiche dell’arte di Raffaello.

C’è – nella raffigurazione dell’edificio incompiuto – il richiamo alle opere tardo-antiche. C’è la vivacità cromatica. Ma soprattutto ci sono la tranquillità, la serenità e l’armonia che lo contraddistinguono.
Cosa rende quest’opera, seppur dipinta 500 anni prima, così contemporanea? Qual è il filo conduttore tra il Raffaello della Scuola di Atene e l’anno in cui ci troviamo?
La Scuola, con il suo Tempio che accoglie filosofi e saggi dell’antichità, rappresenta il tentativo dell’uomo di comprendere la realtà delle cose.

Attraverso la figura di scienziati e filosofi, Raffaello rappresenta l’umanità che possiede la conoscenza.
In un momento storico inedito in cui l’essere umano è spinto a pensare e a ricercare la verità delle cose, cos’è più attuale di un affresco che celebra la potenza di questa ricerca del sapere e l’eternità di essa?
Un dominio dell’universo che si ottiene attraverso la somma del pensiero di scienziati, filosofi, pensatori. Il tutto in una Scuola-Tempio visibile, tangibile anche se irreale. È questo il concetto trapiantabile ai giorni nostri. Giorni in cui l’umanità ha bisogno di una conoscenza del reale per dominarlo. In cui si ha la sensazione che l’invincibilità umana sfugga dalle mani.

Oggi si può immaginare un filo rosso tra quest’epoca e quella vissuta da Raffaello. Oggi si è palesata la necessità di comprensione della verità attraverso il pensiero scientifico e filosofico. Un pensiero di esperti, di scienziati e di studenti che viene elaborato e messo a disposizione in una scuola virtuale.

Questo è quello che rende l’opera di Raffaello, a distanza di 500 anni, così contemporanea. La voglia di conoscenza e dominio del reale è la stessa.

La differenza è nel Tempio. Non più fisico ma virtuale. Una Scuola immateriale nella quale le menti distanti si possono riunire per il bene del sapere.