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Cronaca

Varese: Mauro Colombo di Confartigianato fa il punto sulla fase 2

“Ripartiamo, ma le istituzioni facciano la loro parte. Senza test e tamponi tutta la responsabilità è solo delle aziende” chiarisce che non è tutto come auspicavano le imprese e se le istituzioni non faranno la loro parte gli imprenditori non saranno nelle giuste condizioni per ricominciare a lavorare.

Prima che parta la fase 2 il direttore generale di Confartigianato Varese Mauro Colombo mette in chiaro che non tutto è come le imprese auspicavano che fosse “Premetto che perpetuare ancora il fermo delle attività produttive non è più sostenibile, soprattutto per le micro e le piccole aziende che non hanno mezzi economici e finanziari sufficienti per far fronte a due o anche tre mesi di chiusura – sostiene Colombo – Molte rischiano di non aprire più o, pur provandoci, rischiano di non trovare le risorse sufficienti per reggere. La situazione è critica, lo spettro è quello di perdere migliaia di posti di lavoro, impoverendo i nostri territori e facendo mancare un fondamentale contributo di risorse, servizi e benessere a tutti i cittadini”.

Non si torna certo indietro e lunedì 4 maggio quasi tre milioni di italiani sono pronti a ripartire “Il problema non è il “sé”, sul quale non si discute. Ma il “come”, sul quale speravamo che le istituzioni si facessero trovare preparate – attacca Colombo – Invece no: nonostante gli imprenditori siano disposti a fare tutto il necessario per mettere in sicurezza le proprie aziende, non sono stati ancora messi a punto gli strumenti”.

«Certo, sono stati definiti accurati Protocolli, che impongono distanziamento, divieto di assembramento, misurazione della temperatura e altro ancora e che sono stati verificati e validati da innumerevoli check-list inviate ai datori di lavoro da Ats, Prefetture e rappresentanze sindacali ma il virus, lo abbiamo ben compreso in questi lunghi e durissimi mesi, non si contrasta con la carta bollata e le autocertificazioni».

La regola per contrastare il contagio è quella delle tre “T” : testare, tracciare e trattare, ma «Mi domando: siamo in grado di farlo? – continua il direttore generale di Confartigianato – Ad oggi l’unica certezza è che nessuno potrà certificare che i lavoratori al rientro in azienda dopo un lungo periodo di assenza siano Covid-negativi, a meno che non vengano effettuati preventivamente test immunologici e tamponi. Cosa che non mi risulta si possa fare per tutti…».

Applicando il Protocollo della sicurezza aggiornato il 26 aprile gli unici strumenti nelle mani dei datori di lavoro, sono la misurazione della temperatura, l’individuazione, a cura del medico competente, dei lavoratori “fragili”, ai quali prestare maggiore attenzione e le procedure ad hoc per il reinserimento dei lavoratori dopo la quarantena. 

“E poco importa se non è un rischio specifico dell’attività dell’azienda, l’abbiamo fatto o la faremo tutti, perché comprendiamo che la consapevolezza e i comportamenti responsabili devono essere assunti dappertutto, anche mentre si rimane in mensa o ci si cambia prima di iniziare il turno di lavoro”.

“Ma tutto questo non giustifica – continua Colombo – il rovesciare sulle spalle dell’imprenditore e del suo medico competente una serie di responsabilità che non competono a loro”. Né, a tutela della sicurezza collettiva, potrà ritenersi sufficiente una autodichiarazione del lavoratore.

“Ecco perché chiediamo alla Regione che, seppure in ritardo, si attrezzi con la dovuta quantità di tamponi giornalieri: non si aspetti solo l’insorgenza dei sintomi, a questo punto è necessario programmare anche i test sierologici e i relativi follow up. Dobbiamo tutti farci parte diligente di questa delicatissima fase 2: il virus è più veloce dell’attendismo”.

“L’imprenditore saprà farsi trovare pronto ma non può rischiare che, nel caso in azienda si manifestino casi di Covid-19, si debba ricorrere al lockdown chirurgico evocato dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro: sarebbe la batosta definitiva. Così come lo è aver equiparato i casi di Covid-19 agli infortuni sul lavoro introducendo un profilo di potenziale responsabilità penale per il datore di lavoro. Ma allora sarà così anche per un bambino a scuola, o all’oratorio estivo? O per il cittadino che va in Comune per un certificato? E perché non per un viaggiatore sui mezzi pubblici? (no, qui si scarica con l’infortunio in itinere sul datore di lavoro)”.

“E’ impensabile stabilire come e quando un lavoratore possa aver contratto il contagio. Nonostante il controllo garantito in azienda, infatti, trasporti, tempo libero ed eventuali contatti sociali extra non sono gestibili dall’imprenditore. Un collaboratore passa 1/3 della sua vita in azienda e si chiede al datore di lavoro di essere responsabile anche degli altri 2/3? Il conto non torna”.

In conclusione, il lavoro ha sì bisogno di sicurezza, ma ha anche bisogno di azioni rapide, concrete, efficaci e mirate in capo alle istituzioni e alla politica e prima di tutto ha bisogno di chiarezza.

Nella circolare che il Ministero della Salute ha diramato  giovedì sera con le disposizioni per monitorare la curva dei contagi e il verificarsi di nuovi focolai si prevede che ci sia almeno un operatore sanitario ogni 10mila abitanti per effettuare indagine epidemiologica, tracciamento contatti, monitoraggio quarantenati, esecuzione tamponi, raccordo con assistenza primaria, inserimento dei dati nei diversi sistemi informativi. Alla fine del mese di maggio speriamo di essere un po’ più avanti rispetto alla situazione di partenza. Il virus, infatti, corre più veloce della nostra burocrazia.

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