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Cassazione penale, comprare banche dati che risultano rubate è ricettazione.

Cassazione penale, comprare banche dati che risultano rubate è ricettazione. La sentenza ha confermato la condanna per un imputato accusato di essersi impossessato di pc e memorie portati in una discarica.

Comprare beni rubati è ricettazione, banche dati comprese. Lo chiarisce una sentenza della Corte di Cassazione depositata il 7 maggio, che affrontava il caso di un imputato prima assolto, poi condannato per ricettazione che aveva comprato o ricevuto da ignoti materiale informatico precedentemente conferito in una discarica pubblica. Affinché si configuri il delitto ex articolo 648 Cp, infatti, non è necessario che il reato presupposto sia accertato in giudizio: la provenienza delittuosa del bene si può infatti desumere dalla natura e dalle caratteristiche. E l’elemento soggettivo deve ritenersi provato sulla base dell’inattendibile spiegazione sulla provenienza della cosa ricevuta. È quanto emerge dalla sentenza 13950/20 pubblicata dalla seconda sezione penale della Cassazione. Diventa definitiva la pena inflitta all’imputato dopo che la Corte d’appello ha riformato la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado. Nella casa dell’uomo la polizia sequestra una serie di pc e hard disk contenenti dati sensibili che i legittimi proprietari avevano conferito in discarica. Sbaglia il primo giudice a escludere la responsabilità penale sul rilievo che non c’è prova dell’intrusione abusiva nel sistema informatico altrui e che l’hardware e il software consegnati alla struttura pubblica autorizzata non potrebbero essere oggetto di reato. In realtà il materiale informatico non può essere considerato res nullius: è conferito in discarica con la precisa destinazione all’attività di distruzione e smaltimento.Il reato presupposto della ricettazione, d’altronde, non deve essere accertato in tutti i suoi presupposti di fatto. Né devono essere identificati gli autori. Il giudice, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, può ritenere sussistente il delitto ex articolo 648 Cp sulla base di prove logiche anche se non appura l’esatta tipologia del reato sotteso. Poco importa, dunque, se quest’ultimo è il furto di dati informatici o l’abusiva intrusione nel sistema, che pure sono entrambi indicati in via alternativa nel capo d’imputazione a carico del prevenuto. Ciò che conta è che l’imputato “ritira” i pc e gli hard disk dalla discarica, con tutte le informazioni sensibili nella memoria, memorizzando e catalogando intere banche dati: compie dunque una condotta «inevitabilmente consapevole» della provenienza illecita. E non dare una spiegazione valida sul punto denota la volontà di occultare l’origine dei beni, che si può logicamente spiegare con l’acquisto in mala fede.  

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Vittime dell’amianto. Il datore di lavoro dev’essere condannato perché l’amianto anche piccole dosi fa insorgere il mesotelioma nel lavoratore

Vittime dell’amianto. Il datore di lavoro dev’essere condannato perché l’amianto anche piccole dosi fa insorgere il mesotelioma nel lavoratore. Asbestosi «minima» compatibile con esposizione moderata e significativa di malattia professionale

           

L’amianto ed i suoi terribili effetti continuano a segnare le aule giudiziarie. Noi dello “Sportello dei Diritti” sono anni che continuiamo ad assistere le vittime ed i loro familiari, in una guerra che purtroppo contrappone ancora ex lavoratori e datori di lavoro. Significativa in tal senso per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, la sentenza 12151/20 depositata oggi 15 aprile, dalla quarta sezione penale della Cassazione secondo cui va condannato per omicidio colposo il datore dopo la morte del lavoratore a causa del mesotelioma pleurico anche se la esposto a bassissime dosi di polveri. La patologia può insorgere per dosi cumulative anche modeste. Nessun dubbio sull’origine professionale della malattia. Vanno escluse altre cause come il vizio della sigaretta e dunque manca un elemento causale alternativo di innesco della patologia. Nella fattispecie, diventa definitiva la condanna per omicidio colposo inflitta dal Tribunale di Vercelli e confermata dalla Corte d’Appello di Torino ai titolari dell’impresa dopo la morte di un’operaia addetta allo smontaggio degli arredi di carrozze ferroviarie. Lo confermano tutti i testimoni: nel reparto si liberavano polveri di amianto con l’uso del trapano e dello svitatore e non c’era un impianto di aspirazione, mentre la decoibentazione è entrata in funzione soltanto in un secondo momento. In particolare, l’esposizione all’amianto è accertata sulla base delle deposizioni dei colleghi. La diagnosi di mesotelioma pleurico, poi, risulta confermata dall’esame istologico e riconducibile all’inalazione di polveri d’asbesto: le discordanze fra consulenti del pm e perito d’ufficio sono solo apparenti e ricondotte a unità dai chiarimenti degli esperti. L’asbestosi «minima G1» è compatibile con l’esposizione «moderata» all’amianto ma «significativa» di un’esposizione professionale confermata da un periodo di latenza nel range dell’insorgenza di un tipo di tumore del genere: sono infatti esclusi gli elementi morfologici che distinguono il carcinoma ascrivibile al tabagismo. È l’assenza di inneschi alternativi della malattia la legge scientifica di copertura universalmente condivisa in base alla quale è affermata la responsabilità degli imputati, che non si fonda sulla teoria dell’effetto acceleratore, non condivisa in tutta la letteratura internazionale.