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Busto Arsizio

Ospedale di Busto Arsizio.Ristrutturato il settimo piano del Polichirurgico

Ristrutturato il settimo piano del Polichirurgico

Ospita i reparti di Cardiologia, Unità di Terapia intensiva coronarica (UTIC) e Chirurgia vascolare

 

(Busto Arsizio, 12 giugno 2020) – Ha accolto i malati di Coronavirus. Poi è stato sanificato dalla Nato. Oggi ha nuova vita. Parliamo del settimo piano del Padiglione “Polichirurgico”, dell’Ospedale di Busto Arsizio. Ora sede dei reparti di degenza di Cardiologia, Unità di Terapia intensiva coronarica (UTIC) e Chirurgia vascolare.

L’importo complessivo della ristrutturazione interamente finanziata da Regione Lombardia è di oltre 3.400.000 euro, comprensivo anche dei costi dell’intervento di ammodernamento tecnologico.

 

“Gli interventi di ammodernamento strutturale e tecnologico rappresentano una delle priorità finanziate da Regione Lombardia nel settore sanitario – dichiara l’Assessore al Welfare, Giulio Gallera -. Il nostro sistema si compone di professionisti eccellenti ai quali dobbiamo garantire strumenti moderni e ambienti di lavoro adeguati. In questa direzione si rivolgono le nostre azioni e gli investimenti che abbiamo messo in campo, a beneficio dell’offerta di servizi per i cittadini e della qualità delle cure per i pazienti”.

 

Gli ambienti interessati alla ristrutturazione sono stati completamente adeguati alla normativa vigente in materia di accreditamento delle strutture sanitarie.

Sono stati adeguati tutti gli impianti tecnologici, in modo da rendere l’intervento definitivo e già totalmente compatibile con l’eventuale futura realizzazione dei piani superiori.

La superficie interessata dalla ristrutturazione è di circa 1.700 metri quadrati.

I lavori sono iniziati nel mese di aprile 2017 e sono stati collaudati nel mese di marzo 2019.

I posti letto totali sono articolati in: 15 camere doppie, 2 camere singole, 6 box di Unità di Terapia intensiva coronarica di cui 1 isolato.

La ristrutturazione ha migliorato il comfort delle degenze.

Tutte le camere di degenza sono dotate di bagno.

Tutti i reparti sono condizionati e dotati di sistema wi-fi.

Tutti i locali hanno il sistema di chiamata sia sonoro che vocale, con possibilità di dialogare con il personale.

L’adeguamento a standard strutturali più elevati permette un miglioramento dei processi assistenziali e l’ottimizzazione delle risorse umane in essi impegnate.

L’intervento ha altresì previsto l’ammodernamento tecnologico della strumentazione sanitaria in uso nei reparti, per un importo complessivo pari a oltre 600.000 euro.

Vediamone le voci principali.

-250.000 euro sono stati destinati all’acquisizione di un sistema di monitoraggio cardiologico dei pazienti composto da 6 monitor centralizzati per i 6 posti letto di Unità di terapia intensiva coronarica. I 19 posti letto di Cardiologia sono invece monitorizzati mediante telemetrie collegate in wi-fi alla centrale di monitoraggio.

Il sistema inoltre permette l’acquisizione di tracciati elettrocardiografici attraverso l’utilizzo di elettrocardiografi con refertazione mediante sistemi di telemedicina.

-170.000 euro sono stati utilizzati per migliorare il comfort alberghiero e per l’acquisizione di arredi sanitari.

-120.000 euro è il costo di un ecocardiotomografo di ultima generazione, che permette l’esecuzione di esami diagnostici di altissima qualità e precisione per la diagnosi delle principali patologie cardiologiche e vascolari.

-60.000 euro hanno infine permesso l’acquisizione di 32 letti elettrificati e di 7 lettini visita, oltre che di 6 letti per terapia semi-intensiva.

Afferma la Direzione dell’ASST Valle Olona: “I nuovi reparti facilitano i processi di cura attraverso un approccio multidisciplinare che migliora la qualità dell’assistenza, integrando il sapere dei clinici in una visione d’insieme preziosa per il buon esito delle terapie.  Il miglioramento del comfort, il consistente investimento in nuove tecnologie e l’altissimo valore dei professionisti sia medici che sanitari garantiranno un’esperienza di cura di alto livello ai nostri pazienti”. 

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Sonia Manzetti, la notte non dormo penso a chi soffre

Busto Arsizio, 10 giugno 2020) – Un trasferimento temporaneo motivato dall’emergenza Covid-19. Sonia Manzetti, infermiera al Centro Psicosociale (Cps) di Somma Lombardo, ha lavorato dal 23 marzo fino alla fine di maggio nel reparto Covid 2 dell’Ospedale di Busto Arsizio. Ha quindi inviato al Sitra (Servizio infermieristico tecnico riabilitativo aziendale) una lettera in cui ripercorre la sua esperienza e le motivazioni che l’hanno originata. Dagli inizi di giugno ha fatto ritorno al Cps.

La missiva ha sollecitato una riflessione da parte del Direttore Sociosanitario ASST Valle Olona, dottor Marino Dell’Acqua:
“Ringrazio Sonia per la sua preziosissima testimonianza: nel percorrere la propria esperienza, ci ha insegnato quanto è di valore la professione di infermiera. Valore che sta nella grande capacità di saper apprendere le novità cliniche che cambiano continuamente, e che non ci devono mai trovare impreparati. Valore racchiuso nella grande competenza e nel fare ogni giorno (e in situazioni così diverse) quello che veramente serve al nostro malato, perché ogni nostro malato è diverso. Valore espresso nella grande volontà di essere e di esserci quando qualcuno ha bisogno, senza ripensamenti, senza esitazioni.
Questo è essere infermieri e noi siamo orgogliosi dei nostri infermieri che tutti i giorni dimostrano di sapere, di fare e soprattutto di essere.
Grazie Sonia e grazie a tutti gli infermieri”.

Qui sotto il testo integrale della lettera di Sonia Manzetti.

Memorie di un’infermiera. Anno 2020

Mi chiamo Sonia, ho 55 anni, abito a Gallarate e sono madre di due figli stupendi e nonna di una bimba meravigliosa, svolgo la professione di infermiera da 37 anni e ne sono orgogliosa.

Marzo 2020. L’umanità è colpita da un nemico invisibile e sconosciuto, un virus, inizialmente sottovalutato, che in poco tempo miete moltissime vittime, il suo nome è Coronavirus e causa una malattia detta SARS-COVID 19 che uccide in pochi giorni le persone fragili e soprattutto gli anziani.
La scelta. La notte non dormo, penso a chi soffre, a chi ha bisogno di aiuto, a chi non ce la fa più e a chi muore. Mi chiedo se posso fare qualcosa anch’io. Decido di entrare a far parte dell’esercito per combattere questa guerra, al fianco dei miei colleghi che già stanno operando sul fronte, nel mio piccolo devo e voglio aiutare chi soffre e chi fatica, chi crolla e si dispera, chi stringe i denti in mezzo a questo caos surreale.
Decido: nonostante la paura del contagio, la paura di non poter più vedere i miei cari, il dissenso di chi non mi può capire.
I miei familiari si preoccupano per me ma tutti rispettano la mia decisione e mi sostengono, sono più orgogliosa di loro che di me stessa.
Aderisco volontariamente al reclutamento del personale per lavorare presso un reparto COVID, la mia richiesta viene subito accolta.
Parto per il fronte, metto in stand-by il mio lavoro in psichiatria, saluto i miei cari colleghi con un po’ di magone, inizio una nuova esperienza, di lavoro e di vita, un viaggio nell’ignoto.
Cosa mi aspetto. Chi si arruola nell’esercito è consapevole che in caso di guerra sarà chiamato e dovrà combattere.
Ho scelto di fare l’infermiera, in caso di pandemia devo combattere contro il virus!
Il mio senso del dovere mi ha spinta, ma è stato il mio cuore a decidere.
Il mio posto è al fianco delle persone che soffrono, poter dare loro conforto e sostegno in questo immenso vuoto causato da un’invisibile nemico, un virus che costringe a vivere isolati, a stare lontani dai nostri cari, a non poter avere vicino un familiare nemmeno nel momento dell’agonia. Il mio posto è dove servono, oltre che le cure mediche e l’assistenza, una parola di conforto, un sorriso, una carezza.
Ė stata dura, durissima, ma alla fine è apparsa una luce all’orizzonte che ci guida a credere che ce la possiamo fare, dobbiamo farcela!
Sarò all’altezza del mio compito? Resisterò? Da 29 anni la mia professione mi ha portata a specializzarmi in una branca della Medicina lontana dalle pratiche infermieristiche svolte nei reparti ospedalieri, situazione stressante e poco tempo a disposizione per imparare ma tanta volontà di rimettersi in gioco. Ce l’ho fatta grazie ai miei nuovi e preziosi colleghi che con pazienza e competenza mi hanno aiutata e sostenuta. Ho potuto mettere in campo anche le mie competenze, maturate in 29 anni di lavoro accanto al paziente psichiatrico: la relazione empatica, l’ascolto attento, l’osservazione accurata e il confronto costruttivo con tutto il team.
La gratificazione più grande è arrivata da loro, i veri eroi di questa guerra, i pazienti.
Non dimenticherò mai il novantatreenne che cerca di accarezzarmi il viso celato da una maschera e una rigida visiera.
La signora affetta da un ritardo cognitivo, all’ingresso agitata, spaventata e incontenibile che mi prende un braccio con forza per accarezzarlo e sorridendo mi manda baci.
Il paziente grave e consapevole che dice:” Io non mollo grazie a voi”, pochi giorni dopo muore.
Il vecchietto sordo che mi urla:” sei la mia gioia!”.
Il paziente dimesso che uscendo dal reparto piangendo dichiara: “Mi mancate già!”.
Ne ho centinaia di questi esempi che mi hanno scaldato il cuore nella buia e fredda trincea sul fronte di questa brutta guerra.
Non dimenticherò mai gli sguardi dei malati, la paura nei loro occhi, la tristezza, ma anche la riconoscenza e l’affetto.
In questo percorso della mia vita ho affrontato la paura, ho vinto la fatica, ho spazzato via la tristezza, ho ascoltato le richieste di aiuto, udito urla di dolore ma anche sussurri di gioia e pianti commossi.
Ho dato tutto quello che ho potuto, tutti noi l’abbiamo fatto, ho ricevuto molto di più da tutti quelli che ho incontrato lungo questa strada tortuosa, dalle anime che sono volate via, da quelle che ce l’hanno fatta, da tutti gli operatori sanitari che hanno lavorato con me, dalle gentili signore addette alla pulizia del reparto alle operatrici dell’URP, dai generosi volontari della Protezione civile agli Alpini (chiedo perdono se ho dimenticato qualcuno).
Credo che tutti noi ci siamo sentiti una squadra, che si sia creato un legame che ci unirà per sempre e che terremo nello scrigno delle cose preziose questa esperienza
Alla fine del viaggio mi sento molto più ricca e contenta di me, ho fatto la scelta giusta.
Ringrazio tutti.

Sonia Manzetti

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Vergiate

Vergiate, infortunio sul lavoro

Alle pre 14,30 si è verificato un infortunio che ha visto il coinvolgimento di un uomo di anni 37, presso un’azienda in via delle Betulle.

E’intervenuta sul posto il personale AREU con un’ambulanza base e portato in ospedale a Gallarate per i soccorsi del caso

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Cronaca

Inchiesta tutta italiana, ospedali fantasma in tempi di Covid19

L’ex ospedale geriatrico nel parco della Marcigliana

Ospedali fantasma realizzati o soltanto ideati, o mai terminati, oppure chiusi e abbandonati, cadenti, alcuni addirittura sconosciuti. Spreco intollerabile nella normalità, sconcertante in tempi di Covid-19 quando si fatica a trovare posti letto e pazienti gravissimi rischiano la vita per mancanza di strutture che li accolgano. La storia che vi raccontiamo, in tal senso ha dell’incredibile. All’inizio degli anni Duemila tra i vertici della Regione Lazio, si magnificava la realizzazione di un nuovo ospedale a Roma nord, in zona Bufalotta, lì dove i più celebrati imprenditori del mattone hanno realizzato il grande quartiere “Porta di Roma”. A tutt’oggi nulla di fatto ma, con grande sorpresa, abbiamo scoperto il vero ospedale di Bufalotta, esistente dagli anni Quaranta, nascosto tra la rigogliosa vegetazione del parco della Marcigliana in via Bartolomeo Capitanio, abbandonato, lasciato nel più completo degrado e gravemente ammalorato; come nella migliore tradizione della Regione Lazio, senza alcuna idea per la sua riconversione. Non molti lo conoscono, alcuni lo ricordano come ex manicomio. In realtà la struttura, situata nella magnifica riserva naturale al centro di ampie distese d’erba e alberi maestosi, era un centro di assistenza e protezione sociale impiegato come collegio femminile, divenuto poi un istituto geriatrico. Cinque piani, un’immensa terrazza, finestre ad arco di cui non resta che lo scheletro, si affacciano su quello che un tempo doveva essere un rigoglioso giardino interno, ora ridotto ad ammasso di detriti e sudiciume. Proprio in questa casa di riposo, uno stralunato Alberto Sordi abbandona l’anziana e mite mamma invisa alla moglie, nell’episodio “Come una regina” inserito nel collage del film del 1977 “I nuovi mostri”, con la regia di Risi, Monicelli, Scola e qui ambientato. All’epoca l’istituto era attivo e funzionante, con un’architettura dalle linee importanti in un contesto naturalistico strepitoso. Poi il lento, inarrestabile declino. Dal 1978, anno della Riforma sanitaria e del passaggio dei beni delle Ipab – Istituzioni di assistenza e beneficienza – alle Asl, inizia il rimbalzare delle proposte, delle idee incompiute, dei progetti abortiti. Prima la ricognizione da parte regionale con la classificazione di ospedale, poi l’idea di realizzare in tale suggestiva location la “Città della salute”, con stazione del treno che oggi ferma nella non lontana Settebagni. I binari abbandonati all’ingresso della strada di accesso stanno a testimoniarlo. In occasione del Giubileo del 2000 si propose di recuperare l’edificio realizzando un ostello ma l’idea fallì. Si dice che la spesa per l’abbattimento e smaltimento dei ruderi ammonti a 250 milioni di euro. A supporto di quello che avrebbe potuto essere il grande complesso ospedaliero della Bufalotta un altro edificio a pochi metri, l’attuale Istituto Agrario nella vicina via Tor San Giovanni, da riconvertire ad uso sanitario per ampliare l’offerta. Un complesso che con oculati investimenti economici e qualche sforzo organizzativo, avrebbe rappresentato un polo di riferimento di prim’ordine, costituito dai cosiddetti “ospedali di comunità”, anticipatori delle attuali e nebulose case della salute. Nulla di fatto. Alla fine degli anni Novanta il maestoso edificio subisce l’occupazione dei senza casa, con i vertici regionali dell’epoca che si dichiarano impotenti a sgomberarlo. E qui inizia una vicenda dai contorni interessanti e indefiniti.

Un nuovo ospedale sulle ceneri del San Giacomo

L’assessorato alla Sanità regionale, nel 2007, si fa promotore di un progetto che vedrebbe realizzato l’ospedale di Bufalotta/Talenti ex novo, non prendendo in minima considerazione la ristrutturazione dell’edificio già esistente della Marcigliana. La struttura sanitaria all’avanguardia, dovrebbe sorgere su un terreno agricolo di proprietà dei blasonati costruttori di “Porta di Roma”, da acquistare con l’alienazione del San Giacomo, lo storico ospedale collocato al centro della Capitale, vicino piazza del Popolo. Ė a questo punto che la storia assume aspetti controversi perché il San Giacomo non è un ospedale qualunque. Fondato nel 1339, diventa Arcispedale per il ricovero degli incurabili nel 1515. L’impulso per il suo potenziamento è del 1584, grazie all’azione del cardinale Antonio Maria Salviati che appone un vincolo “a esclusivo uso ospedaliero” nelle sue volontà testamentarie. Nel 1870 è sede di insegnamento universitario e nel 1929 diventa un importante polo di emergenza per le esigenze dei cittadini del centro di Roma. Negli anni Sessanta il Pio Istituto di Santo Spirito – che fino al 1968 ha gestito gli ospedali romani – lo ristruttura completamente su progetto dell’ingegner Carlo Gasbarri. Ė del 1970 la realizzazione di una avveniristica “torretta” interna che accoglie un moderno reparto di ortotraumatologia, eccellenza della sanità cittadina. Risale al 2008 l’ultima ristrutturazione, al costo di oltre 11 milioni, con cui si potenzia il servizio di farmacia con moderne innovazioni tecnologiche, si rinnovano i reparti di gastroenterologia e pronto soccorso, l’oncoematologia, il day hospital e la radiologia. Un’attenzione particolare viene data alla rianimazione, potenziata con 12 letti e strumentazioni sofisticatissime. Mentre nell’ospedale si va avanti spediti con i lavori per celebrare il restyling nel luglio 2008, è in atto dal 2007 un piano di risanamento della sanità del Lazio, afflitta dai debiti, da parte dell’allora presidente Piero Marrazzo. Si prevede la chiusura di vari ospedali, tra cui il San Giacomo da sostituire, guarda caso, proprio con il nosocomio in zona Talenti su terreni che scottano. In modo inaspettato, a opere concluse, con un emendamento contenuto nella legge 14 dell’11 agosto 2008 il Presidente Marrazzo, che svolge funzioni di commissario della sanità, delibera la chiusura dell’antico ospedale nel cuore di Roma entro il 31 ottobre dello stesso anno, tra le proteste generali, gli appelli di comitati, cittadini, intellettuali, le manifestazioni di piazza. E nascono mille leggende intorno alla sorte della struttura, voci che accomunano “l’affaire” San Giacomo al gruppo Caltagirone ma non si hanno né conferme né smentite. Il tutto concordato con il Comune di Roma che all’epoca presenta il “Piano d’area” con delibera 218 del 2007 che ha visto nella zona importanti insediamenti realizzati, oltre al già citato costruttore siciliano, dai più noti imprenditori romani del cemento proprietari dei terreni. Un intreccio inspiegabile che, tra espansione edilizia e tentennamenti delle istituzioni ha condotto alla situazione attuale: una struttura fantasma nella riserva naturale della Marcigliana, rifugio occasionale per i più oscuri riti. Immagini truculente impresse sulle pareti del rudere, insieme alle siringhe buttate tutt’intorno stanno a testimoniarlo. E ancora, il più noto e rimpianto San Giacomo, abbandonato, degradato, inutilizzato, sebbene fosse stato ristrutturato pochi mesi prima della chiusura con 11 milioni di investimento. Si, perché dopo la chiusura sfuma l’idea della vendita, per l’opposizione, corredata da un ricorso vinto, da parte degli eredi del cardinale.

L’affare è in bilico ma la Regione non molla

Durante una raccolta di firme contro la chiusura, attratta dal capannello di persone nei pressi di palazzo Chigi è Donna Oliva Salviati, volitiva erede dell’alto prelato, a rendersi conto di quanto sta accadendo e a organizzare barricate contro i piani regionali, opponendo a questi il prezioso documento cardinalizio con vincolo di destinazione d’uso e la vendita fallisce. Si susseguono diverse ipotesi sul destino dell’ospedale – abbandonato da 12 anni – fino all’ultimo provvedimento dell’assessorato regionale al demanio e patrimonio, che ha approvato il conferimento del bene al fondo immobiliare i3- Regione Lazio” e il 23 gennaio 2019 ne ha annunciato la vendita per 61 milioni. Finora però permane lo stato di abbandono senza alcuna notizia se non costanti e, finora, improduttive azioni giudiziarie da parte degli eredi, con lo stillicidio di risorse impiegate per la vigilanza che controlla la struttura giorno e notte. Non si sa ancora, che fine abbiano fatto le modernissime apparecchiature destinate alla terapia intensiva trasferite al Santo Spirito ma troppo ingombranti per essere collocate in quella struttura. In sintesi: un ospedale diroccato, uno chiuso sebbene facilmente riutilizzabile, uno irrealizzato. Queste le medaglie che i vari assessori alla Sanità e presidenti di Regione Lazio possono appendersi al petto. Nel 2008, su molti quotidiani, era possibile leggere notizie di questo tenore: “Contatti tra Comune e Regione per la realizzazione di un nuovo ospedale a Talenti. L’area in cui verrà edificata la struttura sanitaria è stata acquisita dal Campidoglio nell’ambito della convenzione per la costruzione del nuovo quartiere: quindici ettari atti a ospitare un intervento di peso urbanistico metropolitano. L’edificio avrà trecento posti letto e servirà il quadrante Salario-Nomentano e i quartieri Talenti, Serpentara, Fidene e Bufalotta, considerati dalla Regione Lazio sguarniti di presidi pubblici ospedalieri. La nuova localizzazione è frutto di un piano di ottimizzazione varato dalla Pisana per rientrare dal deficit della spesa sanitaria. Sono previsti inoltre, in zona Bufalotta, insediamenti residenziali per circa diecimila abitanti, uffici, servizi locali e un grande centro commerciale con multisala cinematografica da 3000 posti, 16 piste di bowling e un albergo”. Un piano faraonico, la notizia sembrava così sicura, da far entrare nel computo dei posti letto sottratti con la chiusura del San Giacomo i nuovi posti letto dell’ospedale Talenti, tanto da alterare quella media dei 3,7 ricoveri per 1000 abitanti che a Roma, in realtà, arriva soltanto al 2,9 determinando gravi carenze negli ospedali. In tempo di emergenza sanitaria, in cui anche un solo posto letto di terapia Intensiva in più potrebbe fare la differenza per salvare una vita umana, non può non venire in mente lo scempio della sanità pubblica perpetrato negli ultimi anni, che vede ospedali chiusi come il San Giacomo e il Forlanini, assurgere a simbolo di scelte affrettate. Il resto è storia nota: mentre i nostri malati finiscono in strutture private, approntate in fretta e furia o, peggio ancora, in hotel privi di qualsiasi strumentazione atta a prevenire improvvisi peggioramenti, l’antico nosocomio di via Canova chiuso dal 31 ottobre 2008 è abbandonato al degrado, senza alcuna idea per una possibile utilizzazione, se non improbabili destinazioni a residenza di lusso per anziani.

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Gallarate

Gallarate: Ospedale deserto

Domenica 1 Marzo 2020, una lettrice ci invia delle foto e che come potrete ben vedere, l’Ospedale Sant’Antonio Abate di Gallarate questa mattina era deserto.

Pur essendo Domenica e negli orari di visita, la lettrice comunica che non si vedeva molto movimento in giro per l’ospedale, visitatori che hanno amici o familiari ricoverati hanno preferito a non fare le consuete visite ai ricoverati. La lettrice dice anche, che, il parcheggio difronte lo stesso ospedale era vuoto, le macchine parcheggiate si potevano contare su un palmo di mano, non più di cinque.

Forse che la paura di contagio dal Coronavirus sta creando una vera e propria psicosi da CODIV-19?

Aggiungerei, non abbiate paura di uscire dalle case, pur sempre rispettando ciò che gli organi competenti ci danno costantemente. Altrimenti la vita quotidiana non riparte più, tutto deve tornare alla normalità, comprese le visite ai nostri malati! A.L.

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