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Cronaca

Milano, quale uomo dopo questa epidemia – intervista al Prof Fabio Gabrielli

Antropologo, filosofo, docente univeristario, conferenziere, formatore per i medici, una nominationa al premio nobel 2015

Il Prof. Fabio Gabrielli  parla dell’uomo, delle relazioni. 

Una di quelle persone che non finiresti mai di ascoltare perchè lui l’uomo lo conosce, l’ha studiato e continua a farlo e lo sa raccontare

Chiediamo a Lui cosa pensa di questo periodo e come e se questa esperienza cambierà qualcosa nelle relazioni

 

“1. Professore, si parla del coronoavirus nei termini di un nemico invisibile, questa sua indeterminatezza genera più paura o angoscia?

Infatti, non è la paura che abita i nostri giorni, bensì l’angoscia che scandisce il nostro quotidiano,con modalità e ritmi diversi in base alle nostre biografie.La paura è sempre determinata, implica un oggetto preciso, nitido, che attiva i nostri meccanismi disorveglianza, difesa, fuga. L’angoscia, di contro, riguarda l’indeterminato, la pura possibilità, uno stato che non c’è. Questo virus volteggia ovunque, può colpirci in qualsiasi momento, può essercitrasmesso da chiunque, in qualunque luogo. Ecco, questo espressioni, “chiunque”, “qualsiasi”,“qualunque”, innescano sentimenti di angoscia, proprio per la loro indeterminatezza. Innescano, in altri termini, il sentimento dell’attesa, cioè quando, come, in che luogo, da chi; intendo l’attesa di una possibilità sempre presente, mai definitiva, per questo angosciante. Faccio l’esempio, l’attesa di un referto medico, sovente, è più lacerante del conoscere immediatamente l’esito, anche se questo fosse infausto.

2. Cosa significa l’espressione restare a casa da un punto di vista filosofico?
 
C’è in questa espressione tutto il tratto dell’umano, tutto lo specifico dell’esperienza umana. Esistere, infatti, significa abitare, come ci ha insegnato un grande filosofo come Martin Heidegger.
Gli animali hanno tane, grotte, rifugi, noi abbiamo una casa, un luogo che non è solo un riparo, ma il senso della nostra esistenza. E’ ciò di cui ci prendiamo cura, a cui attribuiamo un senso, una
direzione di vita.
Il tavolo della nostra cucina, il divano, il mobiletto nel corridoio, non sono semplici oggetti anonimi, finalizzati a soddisfare le nostre esigenze utilitaristiche, quotidiane. In essi si sono radicati
e sedimentati i nostri ricordi, li condividiamo con altre persone: i nostri cari, i nostri amici, i nostri ospiti.
Insomma, costituiscono la trama della nostra casa, cioè della nostra vita. La ringhiera del nostro terrazzo non è solo un oggetto anonimo, ma è il luogo carico di significato a cui ciaffacciamo per aspettare nostro figlio, marito, moglie, amico, ecc.
Ecco la casa è il luogo che ospita tutto il senso della nostra vita.
 
3. Quali sono le ripercussioni esistenziali della mancanza di contatto fisico tra le persone,
dell’impossibilità ad avere relazioni di pelle in un mondo che ci ha abituato ad essere
sempre viso a viso?
Mai come in questo momento, abbiamo la netta coscienza del fatto che l’esistenza, tutta l’esistenza, è un fisica dei corpi, una cinetica, un movimento di corpi che si intercettano, vuoi per soggiornare,
vuoi per allontanarsi in cerca di altri corpi.
L’esistenza è, come ha mostrato Jean – Luc Nancy, pelle su pelle, superfici su superfici, esposizione della nostra nuda pelle, della nostra estrema fragilità, che vuole essere toccata, accolta, riconosciuta,
sfiorata, mai ghermita o posseduta come un oggetto da usare e gettare via.
In questo consiste la tenerezza, la sentinella più autentica della vita come con-tatto.
In pratica, noi siamo perché un altro ci tocca, ci conferma nella nostra esistenza. Ma questo toccare ed essere toccati è veramente all’altezza di se stesso solo se accompagnato dalla tenerezza.
 
4. Ci spiega più esattamente cos’è la tenerezza?
Come tutte le parole sacrali, assolute, essenziali, non può essere definita con l’esattezza di un calcolo numerico, ha una tale pluralità, eccedenza di significati che non possiamo mai esaurire con
una definizione.
 Potremmo dire che un’arte dello sfiorare, dell’accostarsi in punta di piedi, con estrema delicatezza e pudore all’altro. E’ il riserbo che deve accompagnare l’accostamento al mistero dell’altro, al suo
segreto d’anima, alla sua irripetibile unicità. E’ la capacità di ospitare una fragilità, una pelle nuda ed esposta al mondo in tutta la sua vulnerabilità. E’ il segno di una comunanza, del fatto che in
questo mondo, in questa vita, in questa incertezza d’essere, siamo tutti vedove, orfani, stranieri.
 
5. Che tipo d’uomo ipotizza dopo questa drammatica pandemia? Pensa che avrà
imparato qualcosa o le cose restarono fondamentalmente immutate?
La crisi è un po’ come l’amore, se dopo esserci innamorati e conosciuti siamo gli stessi di prima, vuol dire che non era amore. Alla stesso modo, se dopo una crisi rimaniamo gli stessi di prima, vuol
dire che non era una crisi.
Ma questa è una vera crisi, una crisi assoluta, perché aggredisce non semplicemente l’economia, la società, la politica, ma il nostro istinto di base, quello di sopravvivenza, la nostra potenza d’essere,
il nostro preservare la vita.
Io credo, e mi limito a un solo esempio, perché l’argomentazione dovrebbe essere molto più articolata, che l’uomo ha davvero l’occasione, e starà a lui afferrarla con tutte le sue forze, di fare
dell’intimità della casa il luogo di accoglienza e di custodia per definizione, un’apertura sempre aperta all’altro, al suo riconoscimento, alla comune solidarietà nei confronti di un mondo che ci
richiede gesti di carezza, perché l’accumulo e il possesso ci hanno mostrato con tutta la loro brutalità gli aspetti più drammatici e bui della vita. Una carezza, un abbraccio, uno sguardo,
colmano fratture, ospitano, addolcendole, fragilità, capovolgono tutta un’esistenza.
In questo momento, in cambio di una carezza, di uno sguardo rassicurante, di un gesto di dolcezza, molti di noi sarebbero disposti a barattare tutto un mondo di comodità, oggetti superflui, inutili
spese. La scommessa, lì si giocherà la partita più importante di questa nostra storia, sarà quella di mantenere, preservare, consolidare la cultura della tenerezza rispetto a quella della virilità
produttivistica, della frenesia efficientistica con cui abbiamo divorato la vita.
 
6. Se non ho capito male, è questo il senso dell’economia?
Esattamente, e qui il discorso si farebbe molto lungo. In estrema sintesi, mentre il business ubbidisce alla logica del soddisfacimento della pulsione immediata, senza visione, la stessa
tecno-finanza alla logica brutale dell’accrescimento indefinito della propria potenza, l’economia è già di per se stessa etica. Essa, accanto alla razionalità del progetto, al rigore del bilancio, alla
produzione di beni, è abitata anche dalla custodia di ciò che non possiamo mai misurare, perimetrare, colonizzare, possedere, cioè l’altro. Insomma, si dà economia solo là ove il
produrre è sempre accompagnato dal riconoscimento e dall’accoglienza della fragilità dell’altro.
Grazie Prof.”