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Carabinieri a casa di Fabrizio Corona – La parola ai giudici

 

Il vicinato contro Fabrizio Corona ?

Potrebbero esserci in arrivo altri grattacapi per Fabrizio Corona solo nel caso in cui vi siano restrizioni nel suo provvedimento.  Nelle scorse ore l’ex re dei paparazzi ha ricevuto la visita dei Carabinieri nella sua abitazione.

Sembrerebbe una visita effettuata su chiamata dei vicini di casa. Musica ad alto volume con amici, anche se di fatto, all’arrivo dei militari non vi era alcun disturbo alla quiete pubblica rilevato.

Però, a casa Corona erano presenti 5 persone, due ragazzi e tre ragazze. L’ex marito di Nina Moric attualmente si trova agli arresti domiciliari e dunque, salvo specifiche decisioni del giudice, non potrebbe ospitare persone in casa. La questione sarà presa in considerazione dal Tribunale che, per le proprie valutazioni, farà affidamento sul rapporto degli agenti che hanno fatto visita a Fabrizio.

Fabrizio Corona, probabili noie giudiziarie : la visita dei carabinieri

Già ad aprile l’ex re dei paparazzi era stato diffidato per una vicenda simile. Era in vigore il lockdown quando ricevette la visita del suo personal trainer: in quel caso l’allenatore era stato multato per la violazione delle regole sulla quarantena; Corona era invece stato ripreso dal Tribunale di sorveglianza per il rispetto delle prescrizioni sulla detenzione domiciliare. Si attendono ora le valutazioni del giudice. Ricordiamo che l’imprenditore lo scorso giugno ha avuto una buona notizia relativa al suo percorso giudiziario: il Tribunale di Milano ha annullato l’allungamento della pena da scontare in carcere di altri 9 mesi. Era stata la Cassazione a ribaltare la sentenza del Tribunale, come annunciato dal legale dell’ex re dei Paparazzi che aveva presentato ricorso alla Suprema Corte.

Fabio Sanfilippo

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Cronaca

Cassazione: niente licenziamento per chi fuma in orario d’ufficio nonostante il divieto.

Cassazione: niente licenziamento per chi fuma in orario d’ufficio nonostante il divieto. Un dipendente era stato sorpreso all’interno dell’intercapedine con la sigaretta accesa: non era un pericolo per l’incolumità dei colleghi

Fumare è una pessima abitudine per la quale noi dello “Sportello dei Diritti”abbiamo avviato la battaglia senza sosta per la tutela della salute. Tuttavia anche i fumatori più incalliti non possono essere licenziati sol perché vengono sorpresi a fumare sul luogo del lavoro in orario d’ufficio e in barba al divieto. A meno che non metta a repentaglio l’incolumità e la salute dei colleghi. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 12841 del 26 giugno 2020, ha respinto il ricorso di una società salvando un dipendente sorpreso all’interno dell’intercapedine con la sigaretta accesa. Per gli Ermellini, evidenzia Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Diritti” bene ha fatto la Corte territoriale – condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e di specifica disposizione adottata dalla ditta committente) in tutto lo stabilimento presso il quale l’uomo era stato assegnato per lo svolgimento della sua attività lavorativa — a valutare, ai fini di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall’art. 2119 cod. civ., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in azienda; avendo rinvenuto due tipizzazioni contrattuali concernenti l’infrazione al divieto di fumo (l’una, ex art .47 ccnl, punita con sanzione conservativa e l’altra, ex art. 48, lett. f) con sanzione espulsiva) ha proceduto alla verifica della sussistenza dei requisiti elaborati dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di licenziamento, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della condotta adottata nell’art. 48, lett. f) per carenza della situazione di “pericolo per le persone o per gli impianti”. La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore è stato trovato intento a fumare, ha ritenuto di  escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, in particolare rilevando che — alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la condotta del lavoratore — non poteva ritenersi integrato un pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l’infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (art. 5 1 legge n. 3 del 2003) doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 ccnl). Infatti, in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

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Consumatori

Prelievi bancomat non autorizzati e conto svuotato? È la banca che deve provare che la carta è stata utilizzata dal titolare.

Prelievi bancomat non autorizzati e conto svuotato? È la banca che deve provare che la carta è stata utilizzata dal titolare. Utenti bancari vincono contro l’istituto di credito in Cassazione e potranno vedersi rimborsati i soldi persi per i prelievi illegittimi

Non si contano i casi di utenti bancari che si sono visti svuotati i conti correnti a seguito di prelievi bancomat effettuati illecitamente da terzi soggetti. Ma in casi simili non bisogna mai perdersi d’animo e disperare di aver perso quanto indebitamente prelevatoci, perché l’ordinamento e le norme a tutela dell’utenza spesso ci garantiscono e ci consentono di riavere il maltolto. A ricordarcelo, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, la Corte di cassazione che con l’ordinanza n. 9721 pubblicata il 26 maggio 2020, ha ribadito il diritto dell’utente bancario a vedersi risarcito dall’istituto di credito quanto sottratto a causa di prelievi illeciti con il bancomat. Per i giudici di legittimità, spetta a quest’ultimo provare che a usare la carta sia stato il legittimo proprietario. Nella fattispecie, gli ermellini hanno accolto il ricorso dei due cointestatari di un conto corrente che se l’erano visto azzerare a seguito di prelievi non voluti per oltre 23 mila euro.Nel ribaltare la sentenza del Tribunale di Napoli Nord, i giudici della terza sezione civile della Suprema Corte, hanno ricordato che «in tema di responsabilità della banca in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 11 del 2010, attuativo della direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente». Per i giudici del Palazzaccio, quindi, è la banca che deve fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente. Ma v’è di più: spiegando che il rapporto fra banca e cliente è di natura contrattuale, la Corte ha, quindi, precisato che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale e, quindi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, configurabile nel caso di protratta mancata attivazione di una qualsiasi forma di controllo degli estratti conto.

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Cronaca

Mobbing: l’Inail deve indennizzare la malattia conseguente alle condotte mobbizzanti.

Mobbing: l’Inail deve indennizzare la malattia conseguente alle condotte mobbizzanti. Per la Cassazione la tutela previdenziale è estesa a ogni forma di tecnopatia di natura fisica o psichica che possa ritenersi conseguenza dell’attività svolta

Dalla Cassazione, sezione lavoro, arriva in data odierna un importante arresto giurisprudenziale in materia di danni da mobbing contro i quali, lo “Sportello dei Diritti”, da anni combatte per i lavoratori. Secondo la Suprema Corte, infatti, l’Inail deve indennizzare anche la malattia conseguente al mobbing. Per i giudici di legittimità, infatti, con l’ordinanza 8948/20 del 14 maggio, la protezione assicurativa è estesa a ogni forma di tecnopatia di natura fisica o psichica che possa ritenersi conseguenza dell’attività svolta. Nella fattispecie, è stato accolto il ricorso di un lavoratore nei confronti dell’Inail dopo che la corte d’appello di Perugia aveva respinto la sua domanda finalizzata a ottenere il riconoscimento della natura professionale della malattia da cui era affetto, poiché causata dalla condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dal datore di lavoro. Per i giudici di Piazza Cavour, sbaglia la corte territoriale a non ritenere tutelabile nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria gestita dell’Inail la malattia derivante non direttamente dalle lavorazioni elencate nell’articolo 1 del d.p.r. numero 1124/1965, bensì da situazioni di costrittività organizzativa, come il mobbing. Nel ricorso il lavoratore ha sostenuto che la Corte d’Appello avrebbe sbagliato nel non riconoscere l’indennizzabilità delle malattie psicofisiche derivanti dalla costrittività organizzativa.  E così i Giudici di Piazza Cavour, nell’accogliere la doglianza, hanno ricordato che in materia di assicurazione sociale rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il rischio specifico improprio, ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa. Con la conseguenza che non può essere seguita la tesi espressa dalla sentenza impugnata secondo cui sarebbe da escludere che l’assicurazione obbligatoria copra patologie non correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle. La Suprema Corte ha affermato che nell’ambito del sistema del testo unico, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione, dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica. Pertanto, conclude il supremo collegio, “ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’Inail, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia”. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, da sempre impegnato in prima linea nella lotta alle vessazioni sul luogo di lavoro, si tratta di una significativa garanzia che si aggiunge nella difficile battaglia della tutela dei dipendenti dalle condotte datoriali eccedenti la normale dialettica sui posti di lavoro.

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Cronaca

I figli non devono mai trascurare i genitori. Si rischia una condanna penale se non si assistono anche economicamente mamma e papà

I figli non devono mai trascurare i genitori. Si rischia una condanna penale se non si assistono anche economicamente mamma e papà. Pugno duro della Cassazione che ha confermato la condanna ai figli di un’anziana disabile nonostante fosse titolare dell’indennità di accompagnamento. Il compagno dell’anziana ha diritto al risarcimento del danno morale ma non a essere rimborsato per quanto ha corrisposto ai fini dell’assistenza Tempi duri, anzi durissimi per quei figli che si disinteressano dei genitori anziani. Perché se non sono i sentimenti o anche solo l’etica a portarci ad aiutare coloro che ci hanno generato e cresciuto, sono la legge e le sentenze ad intervenire e ad obbligarci ad adottare comportamenti moralmente corretti. Ed, in tale ottica, che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, va colta l’importante e significativa sentenza 12201 pubblicata oggi 15 aprile dalla Corte di Cassazione Penale che ha confermato la condanna per il reato di cui all’articolo 570 comma 2 del codice penale a carico di tre figli di un’anziana madre che trascuravano la madre disabile. Ciò vale anche nel caso in cui questa sia titolare di provvidenze ed anche dell’indennità di accompagnamento, in questo caso per una somma complessiva di 1300 euro mensili e pure quando viva nella casa di sua proprietà. Inoltre, per i giudici di legittimità il convivente della donna ha diritto di essere ristorato per i danni morali subìti a causa della mancata assistenza da parte dei figli ma non a essere ripagato di quanto eventualmente sborsato per garantire alla compagna un’esistenza più dignitosa. Nella fattispecie, infatti, i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso dei tre figli di un’anziana in dialisi e affetta da demenza perché ad un certo punto si erano rifiutati di contribuire alle spese necessarie a garantire alla donna una vita più dignitosa. Confermata, quindi, la condanna della Corte d’Appello di Firenze che aveva già ritenuto irrilevante la circostanza che il compagno della donna coprisse le spese necessarie. In tal senso, hanno precisato i Giudici di Piazza Cavour, che lo stato di bisogno del beneficiario non è escluso dall’intervento di terzi (neanche se coobbligati o obbligati in via subordinata), per cui il reato è integrato anche se qualcuno si sostituisce all’inerzia del soggetto tenuto a somministrare i mezzi di sussistenza. Ma vi è di più. Il partner ha sicuramente diritto ai danni morali ma non a quelli patrimoniali per le spese sostenute. Tale principio deriva dal fatto che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nel confronti dell’altro, che sono espressioni del vincoli di solidarietà e affettività di fatto esistenti e si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, ma senza assumere la cogenza giuridica di cui all’art. 43, comma 2, cod. civ.. In questi casi, dal rapporto fattuale non sorge un’obbligazione civile ma un’obbligazione ai sensi dell’articolo 2034 del codice civile ossia di natura “morale o sociale”, per cui soltanto dopo che si è verificato lo spontaneo adempimento della obbligazione naturale, la prestazione assume rilevanza giuridica e non può essere ripetuta perché si è prodotta la cosiddetta soluti retentio, ossia il diritto di trattenere la prestazione che sia stata spontaneamente adempiuta. Ne consegue che «le attribuzioni patrimoniali in favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ.». Tuttavia, tale obbligazione naturale vale solo nei confronti della persona convivente e non anche dei suoi figli, per cui non ha fondamento una pretesa di risarcimento nei loro confronti.

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Diritti civili

I nipoti devono essere risarciti per la morte dei nonni anche se non conviventi

I nipoti devono essere risarciti per la morte dei nonni anche se non conviventi. La Cassazione da ragione a due ragazzi che avevano perso la nonna paterna per una “colpa medica” Chi può dire che i nonni non siano una figura fondamentale per i nipoti e che l’intensità dell’affetto dipenda solo dalla convivenza con questi? Al contrario, in un momento storico in cui stiamo perdendo tanti anziani, comprendiamo forse ancor di più l’importanza dei nostri cari ascendenti. E non è forse un caso che con l’ordinanza 7743 pubblicata oggi 8 aprile 2020 la Cassazione Civile – per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” – si sia espressa per ritenere giusto il diritto al risarcimento del danno da perdita parentale anche nei confronti dei nipoti non conviventi. Nella fattispecie, è stato accolto il ricorso dei familiari di una donna morta a causa di un errore medico, ed in particolare in seguito a una perforazione intestinale. La Corte d’Appello di Genova aveva escluso i nipoti dal diritto al risarcimento per carenza del requisito della convivenza, in quanto l’anziana aveva la residenza altrove, nonostante vi fosse in atti che la donna aveva sempre fatto loro da baby-sitter, pur risiedendo in un altro Comune. Una condizione, quella della convivenza che neanche per i Giudici della terza sezione civile della Suprema Corte è fondante, al contrario della forza del legame affettivo che costituisce l’elemento essenziale ai fini del riconoscimento del suddetto diritto. In tal senso, sulla scorta di recenti precedenti di legittimità “in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione, proposta iure proprio dal congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la società naturale, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. famiglia nucleare, il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti”.

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Cronaca

Diritti della persona. Cassazione, la coppia di mamme gay non può riconoscere in Italia il neonato

Diritti della persona. Cassazione, la coppia di mamme gay non può riconoscere in Italia il neonato. Il caso di due donne di Treviso che si erano recate all’estero per fare la fecondazione assistita Niente riconoscimento per la coppia di mamme gay del figlio concepito all’estero con la fecondazione assistita ma nato in Italia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 7668 del 3 aprile 2020, ha respinto il ricorso di due donne, una genitrice naturale e l’altra genitrice intenzionale, che chiedevano il riconoscimento con la doppia maternità della bimba concepita con fecondazione assistita in Spagna ma nata a Venezia. Con una motivazione destinata ad accendere un aspro dibattito, gli Ermellini hanno fatto una netta distinzione fra l’adozione di un bimbo di una coppia gay e il riconoscimento dopo la PMA. Il primo caso, possibile nel Belpaese, il secondo, contrario alle norme e all’ordine pubblico. Ma non solo. Ad avviso del Supremo collegio la decisione presa non striderebbe neppure con la Carta fondamentale e le indicazioni fornite negli ultimi anni dalla stessa Corte costituzionale. Inutile per la difesa insistere sul fatto che ormai da tempo la giurisprudenza ha sdoganato le adozioni gay. Per i giudici vi è infatti una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. La prima presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela l’interesse dello stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che va verificato in concreto. Al contrario la PMA, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza».Per la Cassazione, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non era dunque pertinente questo confronto, sul quale la difesa ha insistito nel ricorso, alla nozione ristretta di ordine pubblico, essendo l’atto di nascita che si chiede di rettificare formato in Italia, dove la bambina è nata, e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita sia avvenuta all’estero.

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ECONOMIA

Made in Italy e vini italiani da tutelare. Condannato il venditore di wine kit con nomi di vini italiani se non può provare che il mosto proviene da vitigni nostrani.

Made in Italy e vini italiani da tutelare. Condannato il venditore di wine kit con nomi di vini italiani se non può provare che il mosto proviene da vitigni nostrani. Mettere in commercio kit con mosto per produrre una bevanda al gusto di vino, con l’effige del tricolore e i nomi tipici di alcuni vini nazionali induce in errore il consumatore sulla loro effettiva origine

Il Made in Italy, lo ripetiamo da sempre noi dello “Sportello dei Diritti”, dev’essere protetto nel migliore dei modi e la tutela penale può costituire forse il miglior deterrente dalla miriade di tentativi d’imitazione. In tal senso, con una sentenza recentissima, la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 9357/20, pubblicata il 9 marzo scorso, ha ribadito che dev’essere condannato chi vende wine kit con nomi di vini italiani se non dimostra che il mosto proviene da nostri vitigni. I wine kit, per chi ignorasse il termine anglosassone, non sono altro che dei box che contengono tutto il necessario – almeno così promettono – per farsi, in diversi modi, del vino in casa. Nella fattispecie arrivata all’attenzione dei giudici della Suprema Corte, in particolare, è stato rigettato il ricorso del proprietario di una società che aveva messo in commercio in Canada wine kit contenenti mosto per produrre una bevanda al gusto di vino evocativa di alcune delle migliori etichette del Belpaese senza dimostrare che i mosti utilizzati provenissero da vitigni italiani. Nel confermare la condanna da parte della Corte d’Appello di Bologna, i giudici di legittimità non solo hanno sostenuto che l’imputato non aveva documentato la provenienza italiana dei mosti e la prova era di agevole dimostrazione ove effettivamente esistente. Ma ciò che più ritiene più rilevante nella decisione in commento ai fini della tutela dei nostri prodotti, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è che l’indicazione fallace del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati alla dogana, attraverso indicazioni false e fuorvianti, era idonea a far ritenere al consumatore che la merce fosse di provenienza italiana. Infatti, per gli ermellini, «l’indicazione nelle confezioni di vini italiani a denominazione di origine protetta (quali “Amarone”, “Barbera”, Bardolino” e numerosi altri), la dicitura “vino italiano”, le effigi del tricolore italiano e del Colosseo sono elementi idonei a ingenerare nel consumatore la falsa convinzione dell’origine italiana – non ovviamente del “vino” ma – del mosto medesimo, utilizzando per la preparazione della bevanda». E per tali ragioni, per i giudici di piazza Cavour va espresso il seguente principio di diritto: «integra il reato previsto dall’art. 517 cod. pen., in relazione all’art. 4, comma 49, della legge n. 350 del 2003, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino “doc” italiano, nel caso in cui il mosto, fornito dal venditore, non provenga, diversamente da quanto desumibile dalla confezione (recante l’indicazione di vini italiani, le effigi della bandiera italiana e del Colosseo), da vitigni italiani».