Categorie
Salute e benessere

Cuba: un farmaco omeopatico utilizzato come profilassi al COVID-19 come trattamento preventivo in soggetti più vulnerabili.

Cuba: un farmaco omeopatico utilizzato come profilassi al COVID-19 come trattamento preventivo in soggetti più vulnerabili. Un nuovo farmaco si unisce nella lotta al Covid a Cuba. È iniziata nel paese l’utilizzo del medicinale omeopatico denominato PrevengHo-vir, come una delle misure di trattamento preventivo di fronte alla malattia virale, includendo le infezioni respiratorie. Il dottor Francisco Durán, direttore nazionale d’Epidemiologia, ha informato nella conferenza stampa mattutina che si tratta dell’applicazione di alcune gocce sublinguali a persone che non necessariamente presentano sintomi del Covid-19 e il suo uso «permette di prevenire differenti malattie come influenza, raffreddori, dengue, infezioni virali emergenti o viriche emergenti come questa». Una nota dell’agenzia di stampa Prensa Latina riporta che si iniziato a della somministrare il farmaco nella provincia centrale di Villa Clara, con la fascia di anziani più alta del paese, dato che la priorità del trattamento va ai gruppi più vulnerabili. Le autorità sanitarie locali hanno spiegato che la somministrazione del medicinale è cominciata nelle case di riposo e nelle case degli anziani, il cui universo supera le 184.000 persone, il 23,9 % della popolazione della provincia. Poi hanno precisato, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che l’applicazione viene effettuata da medici e infermiere dell’assistenza primaria di salute e hanno assicurato che il medicinale si può somministrare anche a bambini minori di dieci anni, donne in gravidanza, madri che allattano e pazienti con disordini epatici.

Categorie
Salute e benessere

Gli effetti del Coronavirus sugli impianti di acqua potabile delle strutture chiuse quali scuole, palestre e piscine

Gli effetti del Coronavirus sugli impianti di acqua potabile delle strutture chiuse quali scuole, palestre e piscine. Società Svizzera dell’Industria del gas e delle acque (SSIGA): nessun rischio trasmissione ma devono essere risciacquati. L’acqua stagnante aumenta il rischio di infestazioni da legionella e diffusione di altri microrganismi Non è finita l’emergenza che già bisogna pensare al dopo. Questo è un imperativo per non trovarsi impreparati in nessun settore quando finirà il lockdown giustamente impostoci. Tra le questioni da non sottovalutare è cosa bisognerà fare alla riapertura di strutture quali scuole, impianti sportivi, piscine ed ogni altro tipo i cui impianti dell’acqua potabile sono rimasti chiusi. È noto, infatti, che il nuovo coronavirus non è trasmissibile attraverso l’acqua potabile, ma la chiusura dei sistemi idrici e la conseguente stagnazione dei fluidi, accresce indirettamente il rischio di malattie come la legionellosi. Con un richiamo che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, ritiene utile diffondere, la Società Svizzera dell’Industria del gas e delle acque (SSIGA), ha ricordato che, per le ragioni suindicate, gli impianti di acqua potabile che rimangono temporaneamente inutilizzati debbano essere risciacquati accuratamente. L’ente che riunisce le aziende distributrici di acqua e gas d’Oltralpe ha formulato una raccomandazione secondo la quale è necessario aprire ogni tre giorni i rubinetti degli edifici che rimangono inutilizzati. I rubinetti andrebbero aperti uno dopo l’altro, preferibilmente dal basso verso l’alto, per almeno 30 secondi. La pompa che assicura la circolazione dell’acqua deve rimanere in funzione. La SSIGA sconsiglia di disattivare il riscaldamento dell’acqua: il raffreddamento potrebbe infatti causare perdite nei collegamenti delle tubazioni. Soltanto in casi eccezionali, si dovrebbe verificare se l’impianto dell’acqua potabile dell’edificio può essere disattivato completamente o parzialmente e se la pompa di circolazione può essere spenta. Una simile procedura deve tuttavia essere realizzata in accordo con il gestore della rete idrica e in presenza di un installatore di impianti sanitari.

Categorie
Salute e benessere

Emergenza “Coronavirus” in Gran Bretagna: carenza di personale sanitario negli ospedali inglesi.

Emergenza “Coronavirus” in Gran Bretagna: carenza di personale sanitario negli ospedali inglesi. Il sistema sanitario dell’Hampshire cerca di arruolare veterinari e infermieri veterinari Anche in Gran Bretagna si è abbattuto lo tsunami coronavirus che sta già mettendo a dura prova il sistema sanitario nazionale d’Oltremanica. A comprova della situazione di gravissima crisi sanitaria è l’annuncio dell’Hampshire Hospital NHS Foundation Trust, l’omologa della nostra ASL nella contea meridionale dell’Inghilterra, rivolto a veterinari infermieri e veterinari con il quale si chiede a queste categorie di professionisti di unirsi al fronte per combattere COVID-19. La descrizione del lavoro, che incoraggia gli addetti alla cura degli animali a fare domanda per lavoro retribuito o volontario, consiste nel supportare i pazienti, che sono in terapia intensiva e necessitano di trattamento, monitorandone il polso e la respirazione, la saturazione di ossigeno, la temperatura, la pressione sanguigna – venosa e cannulazione venepuntura, solo se sono addestrati a farlo. Una situazione senza precedenti che richiede un impegno mai visto prima di uomini e mezzi che sembra stia raccogliendo il favore di tantissimi veterinari e personale delle cliniche veterinarie pronti ad “arruolarsi” in questa battaglia, per quanto è stato riportato anche sul sito di una delle più note agenzie interinali per il reclutamento di personale sanitario in Gran Bretagna al seguente link https://www.zenopa.com/news/2231/veterinary-nurses-and-veterinarians-asked-to-join-the-frontline-to-battle-covid-19 Un’idea che non sembra del tutto campata in aria per combattere in una guerra, quale quella che stiamo vivendo, in cui serve il contributo di tutti, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”. È chiaro, infatti, che nell’intenzione dei responsabili dell’Hampshire Hospital NHS Foundation Trust e di coloro che lo seguiranno in Gran Bretagna non vi è la volontà di sostituire il prezioso lavoro di medici e personale infermieristico, ma di affiancare quest’ultimi nella battaglia e cercare di evitare il più possibile carenza di uomini nei prossimi giorni che appaiono assai duri per l’intero Regno Unito.

Categorie
Salute e benessere

Coronavirus e jogging. La corsetta fuori casa può far contagiare altre persone

Coronavirus e jogging. La corsetta fuori casa può far contagiare altre persone. Un infettivologo svizzero segnala il rischio. Ma non tutti gli scienziati sono concordi. Lo “Sportello dei Diritti”: nell’incertezza della scienza è meglio prevenire e continuare a stare a casa. Attendiamo di uscire dal tunnel per riprendere la vita normale Nonostante i giusti inviti, anzi l’obbligo di restare a casa, sono troppi coloro che ancora scalpitano per una sgambata per andare a fare un pò di footing proprio in questa delicatissima fase nella quale il nostro Paese inizia a vedere l’uscita dal tunnel di questa tremenda emergenza che risponde al nome di “Coronavirus”. Sono tanti gli scienziati che ci continuano a ricordare che rimanere a casa può fare la differenza e non è il tempo di perpetuare abitudini che normalmente e correttamente sono considerate sane. La conferma che anche andare a correre può far contagiare gli altri arriva da un’intervista su 20minuten e riportata da Ticinoonline, di un infettivologo svizzero, il dottor Andres Cerny, Direttore di Epatocentro Ticino, oltre che medico accreditato alla Clinica Moncucco. Questi ha affermato che «Anche andare a fare jogging comporta un possibile rischio di trasmissione di coronavirus nei confronti delle altre persone». Il medico ha ritenuto dover precisare in tal senso che: «Facendo jogging, coloro che corrono producono molto aerosol, che rimanendo nell’aria potrebbe trasmettere il virus alle persone nelle loro strette vicinanze». E ciò potrebbe acuirsi nei sentieri e nelle strade strette, dove due metri di distanza non sono facilmente applicabili. «La differenza tra le normali goccioline (di cui si parla tanto recentemente) e l’aerosol è la grandezza: l’aerosol, essendo di dimensioni ridotte, può rimanere nell’aria ed essere rilevabile per circa tre ore, mentre le goccioline scendono rapidamente (in circa 10 minuti) a terra o su altre superfici» ha sottolineato il dottor Cerny. L’aspetto positivo è che il virus contenuto nell’aerosol a contatto con l’aria fresca si diluisce velocemente. «In ogni caso, il vento che si crea quando una persona corre riduce fortemente la concentrazione di virus nell’aria, e di conseguenza, cala anche la probabilità di trasmettere il virus ad un’altra persona» ha evidenziato lo specialista in malattie infettive. Tuttavia, nel caso di vento, bisogna fare attenzione. «È possibile che il vento spinga l’aerosol o le goccioline in una determinata direzione. Comunque, come ripetuto più volte, il principio più importante da seguire rimane quello della distanza sociale: più si sta alla larga, minore è la possibilità di venir infettati» ha concluso il medico. Dev’essere però precisato, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che come correttamente riportato dal giornale elvetico, il fatto che il virus possa essere trasmesso tramite aerosol è un’eventualità in fase di studio, ancora al vaglio degli scienziati, e non supportata da tutti gli esperti. Soprattutto in una situazione naturale, al di fuori di un ambiente controllato di laboratorio, non ci sono le basi scientifiche per confermarlo. In ogni caso, nell’incertezza ed in una fase delicatissima quale quella che stiamo vivendo, è certamente corretto e doveroso continuare sulla strada individuata dal nostro governo nella scelta di farci rimanere tutti a casa e ad attendere ancora qualche giorno prima di riprendere le nostre sane abitudini e gli sport agonistici e non.

Categorie
Salute e benessere

150 marinai positivi al Covid-19 sulla nave da guerra Uss Theordore Roosevelt

150 marinai positivi al Covid-19 sulla nave da guerra Uss Theordore Roosevelt. Il Pentagono respinge la richiesta del Comandante della portaerei statunitense d’evacuare l’equipaggio per il focolaio di coronavirus a bordo Il segretario alla Difesa degli USA, Mark Esper, ha dichiarato che è troppo presto per evacuare la portaerei in cui 150 marinai sono infettati dal coronavirus, nonostante la richiesta del Comandante della nave da guerra di mettere in quarantena tutto l’equipaggio a terra. Lo ha rivelato il canale televisivo RT. «Non credo che siamo a questo punto», ha dichiarato Esper in un’intervista rilasciata al programma di notizie televisive CBS News, negli Stati Uniti, sul possibile sbarco dei circa 4000 marinai della USS Theordore Roosevelt, la prima nave da guerra statunitense in servizio che ha un focolaio di COVID-19 a bordo. Il capo del Pentagono ha informato che attualmente si sta approvvigionando di una grande quantità di rifornimenti e assistenza medica la portaerei, che si trova ancorata all’Isola di Guam, nel Pacifico Occidentale. Il funzionario ha aggiunto che nessuno dei membri dell’equipaggio è grave. La USS Theordore Roosevelt è stata ritirata dal servizio la settimana scorsa dopo che varie decine di uomini dell’equipaggio si sono ammalati di COVID-19, obbligando la nave a deviare dalla sua missione nel mare della Cina Meridionale e ad attraccare a Guam, dove tutto il personale a bordo è stato sottoposto alle prove di positività del SARS-Cov-2. Al meno 150 sono risultati positivi. Il focolaio ha spinto il Comandante della nave, Brett Crozier, a scrivere una lettera al Dipartimento di Difesa, chiedendo che tutto il personale potesse sbarcare e mettersi a terra in quarantena. «È necessaria un’azione decisiva ora per prevenire eventi tragici», ha scritto l’ufficiale sostenendo che invece delle prove addizionali per il virus la messa a fuoco ora deve stare nella quarantena e l’isolamento. Durante l’intervista, Esper ha ammesso che, anche se non aveva letto la lettera di Crozier in profondità, ha evitato di fare commenti diretti sulla richiesta del Capitano, oltre a non considerare la necessità d’una evacuazione.«Non ho avuto l’opportunità di leggere questa lettera nei dettagli. Mi affido alla catena di comando della Marina per valutare la situazione e assicurano che si offrono al Capitano e all’equipaggio tutto l’appoggio che necessitano per far sì che i marinai siano sani e la nave torni al mare», ha sostenuto il segretario della Difesa. Intanto, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, sono stati riportati altri tre focolai minori a bordo di navi da guerra della Marina statunitense: la USS Boxer, la USS Colorado e la USS Ralph Johnson, tutte ancorate nella costa a ovest del nordamerica.

Categorie
Salute e benessere

L’ecatombe del coronavirus. Il video shock: decine e decine di defunti accatastati in un ospedale del Nord Italia

L’ecatombe del coronavirus. Il video shock: decine e decine di defunti accatastati in un ospedale del Nord Italia. Dopo l’immagine dei camion militari sui social si condivide una scena raccapricciante che vale più di un monito: restiamo a casa In questi giorni ne abbiamo viste di tutti i colori, ma quello dominante è il nero. Come quello dei sacchi in cui decine e decine di defunti sono stati deposti e ammassati in un ospedale del Nord Italia, in video che sta circolando sui social e che pubblichiamo: https://youtu.be/zOed22CDaxQ. Una vera e propria ecatombe in queste immagini, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che vale più di tutti i moniti sinora lanciati. È l’invito più duro e tragico a restare a casa.

Categorie
Salute e benessere

Presentate prime immagini al microscopio del ceppo italiano Sars-CoV-2.

Presentate prime immagini al microscopio del ceppo italiano Sars-CoV-2. Il ceppo italiano potrebbe essere collegato a quello tedesco ma non ci sono conferme. I ricercatori dell’ospedale Sacco di Milano, hanno mostrato oggi le prime immagini del ceppo italiano Sars-CoV-2, giunto in Italia tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, quindi almeno una ventina di giorni prima che fosse confermato il primo caso Italiano di COVID-19 all’ospedale di Codogno. Si tratta delle cellule del virus derivate dai primi casi di nuovo coronavirus autoctono in Italia, scoperto nell’area della Bassa Lodigiana. Le osservazioni al microscopio elettronico mostrano le “particelle virali di Sars-CoV-2 adese alle membrane sulla superficie e all’interno di cellule VERO E6 utilizzate per l’isolamento. Una seconda immagine frutto della combinazione di due immagini a 50mila e 140mila ingrandimenti, “mostra particelle virali con la tipica ultrastruttura caratterizzata dalla corona di glicoproteine superficiali”. Secondo la prima ricostruzione del Sacco di Milano, il ceppo italiano potrebbe essere collegato a quello della Germania ed essere quindi di importazione europea ma non ci sono conferme. Teoricamente sarebbe stato possibile, per quanto assai poco probabile, l’esportazione multipla della stessa variante direttamente dalla Cina alla Germania e all’Italia. A sostenerlo, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, un articolo pubblicato su La Statale News: “Il ceppo è strettamente correlato a quello isolato per la prima volta da un paziente ammalatosi di COVID-19 tra il 24 e il 27 gennaio 2020 in Baviera, in seguito a una riunione aziendale avvenuta qualche giorno prima vicino Monaco, a cui aveva partecipato una manager Cinese proveniente da Shanghai, che aveva riconosciuto i sintomi di COVID-19 solo al ritorno in patria”.

Categorie
Salute e benessere

Farmaco Esmya. Dopo l’invito a non usarlo dell’Ema, arriva il divieto di vendita di Aifa

Farmaco Esmya. Dopo l’invito a non usarlo dell’Ema, arriva il divieto di vendita di Aifa. Dopo gli allarmi e l’invito da parte dell’Ema a sospendere l’autorizzazione in commercio e comunque di non usarlo per possibili rischi di danni al fegato, l’Aifa ha disposto il divieto di vendita in Italia del medicinale utilizzato per curare i fibromi uterini L’Aifa ha reso noto di aver disposto il divieto di vendita in Italia del medicinale Esmya (ulipristal acetato) utilizzato nel trattamento pre-operatorio dei sintomi da moderati a gravi di fibromi uterini in donne adulte in età riproduttiva, oggetto a febbraio 2018 di un allarme dell’Ema dopo che aveva ricevuto diverse segnalazioni di danni epatici nelle donne che si erano sottoposte alla terapia. E oggi, 2 aprile, è arrivato il provvedimento dell’Aifa che ha vietato la vendita di Esmya in tutte le confezioni, della ditta Gedeon Richter Italia. Il divieto di vendita, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, rimarrà in vigore sino alla conclusione della procedura di revisione del rapporto beneficio/rischio del principio attivo Ulipristal acetato 5 mg e ai risultati sull’efficacia delle misure di minimizzazione del rischio.

Categorie
Salute e benessere

Bimbo di sei settimane muore di coronavirus negli Stati Uniti

Bimbo di sei settimane muore di coronavirus negli Stati Uniti È straziante. Un bimbo di appena sei settimane è morto a causa del coronavirus. È accaduto in Connecticut, negli Usa. A confermare la notizia, anticipata dai media locali, il governatore dello stato, Ned Lamont sul suo account Twitter.. “Riteniamo che sia una delle vittime più giovani”, spiega Lamont, che ha poi rivolto un pensiero allo strazio dei familiari. “Il virus attacca i più fragili – la conclusione del governatore – E questo mostra l’importanza di stare a casa e limitare l’esposizione ad altre persone”. Le autorità dell’Illinois hanno annunciato sabato la morte a Chicago di un bambino di nove mesi, la persona più giovane conosciuta per essere morta a causa del virus negli Stati Uniti. Negli Usa, intanto, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è allarme per l’elevato numero di persone sotto i 40 anni colpite dal virus. Nello stato di new York il 20% delle persone in ospedale ha meno di 44 anni, a Filadelfia si calcola che il 56% dei contagi sia tra persone sotto i 40 anni.

Categorie
Salute e benessere

L’AIFA prima autorizza e poi revoca la somministrazione dell’interferone beta 1 per via endovenosa per la cura del Coronavirus

L’AIFA prima autorizza e poi revoca la somministrazione dell’interferone beta 1 per via endovenosa per la cura del Coronavirus: «problemi di incompatibilità della formulazione disponibile rispetto all’uso proposto». Lo “Sportello dei Diritti”: si chiarisca se la modalità di somministrazione sia stata adottata nella pratica ospedaliera e a quanti pazienti In data odierna ci ha particolarmente scosso un articolo del quotidiano “Il Tempo” a firma di Franco Bechis che ha ipotizzato uno scenario a dir poco inquietante circa uno specifico tipo di farmaco utilizzato nella cura del Coronavirus, la cui somministrazione per via endovenosa sarebbe stata prima autorizzata dall’AIFA e poi revocata a distanza di una settimana perché dichiaratamente “incompatibile” nella suindicata modalità di utilizzo. Si tratta dell’interferone beta 1 normalmente somministrato attraverso iniezione intramuscolo o al limite sotto pelle per la cura della sclerosi a placche sotto il nome commerciale di Avonex. È raro che noi dello “Sportello dei Diritti” riprendiamo stralci integrali di notizie riprese da altri, ma questa vicenda merita di essere raccontata per come riportata da colui che per primo l’ha diffusa ed è per questo che riteniamo utile trascrivere l’articolo rinvenibile al seguente indirizzo: https://www.iltempo.it/cronache/2020/04/01/news/coronavirus-ai-malati-farmaco-killer-aifa-autorizza-poi-ritira-avonex-interferone-beta-1-contro-covid-19-insufficienza-respiratoria-1306393/ «…L’Aifa – l’agenzia del farmaco italiano – ha invece autorizzato il suo utilizzo nella lotta al coronavirus per via endovenosa. Il risultato secondo le avvertenze del farmaco è un sostanziale sovradosaggio dovuto all’assorbimento più rapido. E gli effetti già testati in questo caso sono fra l’altro: «svenimento,. Convulsioni, disturbi depressivi, anche gravi con ideazione suicidaria, aritmie, angina, ipertensione arteriosa, insufficienza cardiaca e addirittura difficoltà respiratorie». Non conosciamo cosa sia accaduto a quei malati, ma è certo che dopo 7 giorni di somministrazione quella autorizzazione all’utilizzo dell’interferone beta 1 è stata improvvisamente revocata dalla stessa Aifa. L’autorizzazione e la revoca sono atti pubblici, entrambi pubblicati sulla Gazzetta ufficiale come determine dell’Agenzia del farmaco. La prima è del 17 marzo e stabilisce che l’interferone beta 1 «è erogabile a totale carico del Servizio sanitario nazionale come terapia di supporto dei pazienti affetti da infezione da Sars-CoV2 (COVID-19), nel rispetto delle condizioni per esso indicate nell’allegato 1 che fa parte integrante della presente determina». L’allegato a cui si fa riferimento spiegava che il farmaco era controindicato ovviamente per chi aveva ipersensibilità all’interferone beta 1, a chi stava seguendo altra «terapia corticosteroidea» e per le donne in gravidanza o in allattamento. Stabiliva anche che la cura sarebbe stata a carico del SSN per tre mesi, e il piano terapeutico: «dosaggio 10 mg al giorno in bolo endovenoso per un massimo di 6 giorni consecutivi». Infine i parametri indicati per il monitoraggio clinico: «Nel corso del trattamento con il medicinale devono essere monitorati i tempi di estubazione e la mortalità».Otto giorni dopo – il 25 marzo – sulla Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata una nuova determina Aifa che revocava la decisione precedente che sarebbe dovuta durare tre mesi spiegando solo che la commissione tecnico scientifica dell’Agenzia del farmaco in una sua riunione tenutasi il 24 marzo «ha ritenuto opportuno revocare tale inserimento per problemi di incompatibilità della formulazione disponibile rispetto all’uso proposto».Quando ho letto entrambe le gazzette ufficiali ho fatto un salto sulla sedia: «Cosa è successo per consentire ai malati di coronavirus l’utilizzo di un farmaco che dopo soli sette giorni viene ritirato? È stato usato su qualche paziente? Con quali effetti? Ha migliorato la sua situazione o l’ha aggravata, visto il ritiro?». Tutte domande che dovrebbero avere risposta nel verbale di quella commissione tecnica dell’Aifa, che però non è pubblicato né pubblico. Ho provato ad avere notizie dall’interno dell’Agenzia come già avevo fatto in passato, ma ho trovato un riserbo che mai mi era stato frapposto. Insistendo l’unica cosa che ho saputo è che il farmaco era già stato sperimentato prima della sua autorizzazione su circa 300 pazienti, con qualche successo. E con questo avevo chiaro il motivo della prima delibera Aifa, che lo inseriva fra le cure ufficiali al coronavirus a carico del sistema sanitario pubblico. Ma perché poi è stato ritirato? Un giallo. Così ho inviato le due gazzette ufficiali al viceministro della Salute, Pier Paolo Sileri, che è saltato sulla sedia appena lette esattamente come era capitato a me: «Mi informo». Sileri è sempre molto gentile e ci tiene alla trasparenza, ma in questo caso aveva una sensibilità in più: nel tunnel di quella brutta malattia è passato anche lui in prima persona, ed è appena uscito. Il viceministro ha provato per le vie brevi e informali ad avere chiarimenti dall’Aifa, nella speranza di potere fornire una risposta rapida e tranquillizzante. Ma il tentativo non è riuscito. Così ha chiesto chiarimenti ufficiali inviando una lettera all’Aifa nella sua funzione di ministro controllante. A quel punto zitti non potevano stare. Lì ha chiesto i motivi dell’autorizzazione e quelli della revoca nonché il numero di malati Covid 19 eventualmente trattati in quella settimana di autorizzazione del farmaco e con quale risultato. Ha ricevuto la risposta ufficiale a 36 ore dalle sue domande, solo ieri in tarda serata. E me l’ha girata. Eccola: «Per quanto riguarda eventuali pazienti trattati con IFN-beta1a dal 17 al 25 marzo, tale dato non è ancora a disposizione di AIFA, essendo in corso di pubblicazione in questi giorni la piattaforma per l’inserimento dei dati da parte dei clinici. Inoltre, in questo momento di emergenza i centri ospedalieri non hanno facilità ad inviare i dati e quindi li verificheremo appena possibile. Lo studio di riferimento per l’iniziale inserimento prevedeva un trattamento per via endovenosa. Purtroppo le formulazioni disponibili in Italia non sono autorizzate per l’uso endovena e quindi la CTS, nell’ambito del processo di rivalutazione continua delle evidenze in materia di farmaci per il trattamento del COVID-19 ha ritenuto opportuno revocare l’inserimento nelle liste ai sensi della legge 648/96, per i menzionati problemi di incompatibilità della formulazione disponibile rispetto all’uso proposto». Purtroppo la risposta chiarisce poco. Conferma quello che avevamo scoperto da soli: era stata data autorizzazione all’utilizzo di un farmaco per via endovenosa che però sul mercato esiste solo per la somministrazione per via intramuscolare. E già questo è un errore clamoroso: perché essendo l’Aifa l’agenzia che autorizza in Italia la commercializzazione dei farmaci, è il solo soggetto che dovrebbe conoscerne le caratteristiche. Ma è la prima parte della risposta che inquieta non poco. L’Agenzia avrebbe potuto rispondere: «Ovviamente il farmaco non disponibile per quello che pensavamo non è stato somministrato nemmeno a un paziente». Purtroppo non dice questo, anzi. Dice semplicemente che non è in grado di saperlo in questo momento, dovendo attendere i dati che man mano arriveranno dagli ospedali italiani. L’unica è sperare che questo incredibile infortunio dell’agenzia non abbia indotto in analogo errore qualche ospedale o medico che si fosse fidato dell’Aifa seguendo le istruzioni fornite. Dio non voglia che il nostra sistema sanitario abbia somministrato ai malati di questa brutta bestia quel che poteva provocare anche senza il virus una insufficienza respiratoria.» Una notizia a dir poco preoccupante, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, per la quale riteniamo necessario che l’AIFA chiarisca immediatamente se la modalità di somministrazione prima autorizzata e poi revocata sia stata adottata nella pratica ospedaliera e a quanti pazienti. Anche se siamo in emergenza, è lecito, anzi è imprescindibile sapere se e in caso affermativo, quanti ammalati, abbiano ricevuto il farmaco con questa modalità e le eventuali conseguenze dannose patite dagli eventuali incolpevoli pazienti.